di PAULINA VILLEGAS, AUGUST 26, 2017. tratto dal New York Times
Gli zapatisti, i ribelli politici più potenti in Messico degli ultimi 100 anni, rinunciano alla rivoluzione armata, dopo decenni di opposizione al governo, per una semplice ragione: il Messico è così trivellato da violenze, spiegano, che il paese non ne può più.
Gli analisti sostengono che tale decisione valga come commento sullo sconcertante stato del Messico oggi. I ribelli non hanno raggiunto un accordo di pace con il governo, né hanno vinto la loro lunga battaglia per i diritti indigeni. Ma le uccisioni in Messico crescono così velocemente che anche un movimento radicato nella lotta armata si sente obbligato ad allontanarsi dalla violenza.
“Questo dimostra fino a che punto i messicani sono stanchi della violenza”, ha dichiarato Jesús Silva-Herzog, professore di scienze politiche presso la Scuola del Governo dell’Istituto Tecnologico di Monterrey. “Al giorno d’oggi, il radicalismo politico deve essere pacifista perché la vita pubblica, sociale ed economica in Messico è stata macchiata di sangue per troppo tempo”.
Il Subcomandante Marcos, il leader ribelle che è diventato un fenomeno globale nel 1994, quando gli zapatisti irruppero nelle città dello stato del Chiapas, alcuni mesi fa è salito sul palco per qualche istante, nascosto dietro a un sacco di combattenti, di giovani con piercing e di seguaci indigeni in camicie cucite a mano.
Dopo qualche giro di applausi, di fotografie e di canti rivoluzionari, è sceso tranquillamente dal palco, una netta differenza dai discorsi infuocati sulla disuguaglianza e la rivoluzione armata che un tempo gli facevano guadagnare attenzione internazionale e reclute volenterose.
Ma ora, affermano gli zapatisti, altra violenza, indipendentemente dalla causa, è l’ultima cosa di cui il Messico ha bisogno.
Così, hanno deciso di operare all’interno del sistema contro il quale si erano ribellati, sostenendo una candidata alla presidenza nelle elezioni del prossimo anno.
“Siamo arrivati ad un punto di rottura”, ha dichiarato Carlos González, portavoce del Congresso Nazionale Indigeno, un’organizzazione che rappresenta i gruppi indigeni in Messico, che parlava anche a nome degli zapatisti.
“L’uso delle armi era fuori questione”, ha detto. “Era un’opzione troppo sanguinosa”, anche se non hanno escluso il ricorso alle armi a un certo punto in futuro.
La violenza ha colpito il Messico per molti anni, dove più di 100.000 persone sono state uccise e più di 30.000 sono scomparse durante la guerra alla droga che dura da oltre 10 anni.
Ma quest’anno le morti hanno raggiunto un nuovo livello: i mesi di maggio e giugno fissano i record consecutivi degli ultimi vent’anni in quanto al numero di casi di omicidio in tutto il paese.
Tralasciando l’identità rivoluzionaria che una volta li ha definiti, gli zapatisti, il cui nome completo è Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, si stanno avventurando nella politica elettorale. Hanno sostenuto la candidatura di María de Jesús Patricio Martínez, una guaritrice della popolazione indigena Nahua, alle elezioni presidenziali dell’anno prossimo.
“In Messico, essere indigeni significa essere trattati come persone a metà, e se sei una donna, anche meno”, ha detto Patricio, 57 anni, che non è zapatista.
L’obiettivo degli zapatisti, dicono, non è quello di vincere, ma piuttosto di usare le elezioni del 2018 come una piattaforma per dare voce ai problemi più urgenti delle comunità indigene messicane.
“Non ci importa affatto la presidenza; quello che vogliamo è fare far cadere il partito elettorale e rovinarlo”, ha dichiarato il portavoce González.
Il governo messicano afferma che accoglie con favore “tutte le espressioni politiche e sociali”, inclusa la candidata sostenuto dagli zapatisti, argomentando che contribuisce ad una più forte democrazia. Ma non tutti accettano la narrativa zapatista. Alcuni dei loro avversari li vedono come un gruppo di guerriglieri opportunisti che potrebbero fratturare ulteriormente il voto a sinistra.
Uno dei principali critici è il candidato presidenziale populista di sinistra, Andrés Manuel López Obrador, che nei primi sondaggi ha definito la candidatura sostenuta dagli zapatisti come una “trovata politica”.
Quando sono apparsi per la prima volta nel 1994, la minaccia della violenza faceva parte del programma zapatista. Una nazione trasfigurata guardava come un esercito di contadini indigeni, che indossava passamontagna e brandiva armi da assalto, irrompeva in diverse città dello stato meridionale del Chiapas e dichiarava guerra allo Stato messicano.
I ribelli hanno chiesto il riconoscimento e la protezione delle comunità indigene, che sono costantemente classificate in fondo alla scala socioeconomica del paese. Con la loro insurrezione armata, fatta di passamontagna neri e ferventi discorsi, gli zapatisti costrinsero il Messico ad affrontare la sua lunga storia di disuguaglianza.
La rivolta è avvenuta in un momento particolarmente sensibile, quando il Messico era in preda alla globalizzazione e all’intensificarsi delle relazioni con gli Stati Uniti. L’Accordo di Libero Scambio Nordamericano è entrato in vigore proprio il giorno in cui è iniziata l’insurrezione.
Dopo un confronto di 12 giorni tra le truppe governative e i combattenti zapatisti, si è verificata una prima tregua. Presto si sgretolò quando il presidente di allora, Ernesto Zedillo, emanò i mandati d’arresto per i principali rappresentanti degli zapatisti, incluso l’unico portavoce non indigeno del gruppo, il Subcomandante Marcos.
Con i discorsi appassionati del loro misterioso cavaliere, gli zapatisti attirarono rapidamente legioni di seguaci sia a livello locale che all’estero. Alcuni accolsero la lotta dei ribelli come la prima “rivoluzione postmoderna”.
Ne seguì un processo sconnesso di negoziazione con il governo, che portò agli accordi di San Andrés, firmati nel 1996. Prometteva una riforma costituzionale che avrebbe concesso un’autonomia limitata alle comunità indigene, così come il diritto di eleggere i consigli per il governo locale sulle loro terre.
Ma quando la legge fu finalmente approvata nel 2001, escluse il diritto al governo autonomo dei loro territori, spingendo gli zapatisti a tagliare tutti i legami con il governo e i partiti politici.
Il loro slancio cominciò a svanire. I ribelli svanirono dal radar pubblico, tornando ai loro nascondigli nella Selva Lacandona e organizzando discretamente le proprie comunità invece di cercare l’attenzione pubblica.
Poi, tre anni fa, il Subcomandante Marcos tenne un discorso riflettendo sull’esercito zapatista e stabilendo cosa sarebbe diventato, in ultima analisi, l’attuale modo di agire dei ribelli.
“Noi scegliamo la vita, non la morte”, ha detto nel discorso. “Invece di costruire baracche e migliorare il nostro arsenale di armi, abbiamo costruito scuole, ospedali e abbiamo migliorato le nostre condizioni di vita”.
Gli zapatisti stavano cambiando, e anche lui. Ha cambiato il suo nome in Subcomandante Galeano, per onorare un compagno caduto. E ha annunciato la morte Subcomandante Marcos come personaggio. Non ce n’era più bisogno, ha detto, descrivendosi come “un vestito fatto per i media”.
Negli anni successivi, i territori controllati dagli zapatisti hanno esercitato un’effettiva autonomia, offrendo un ampio accesso ai servizi educativi e sanitari. La criminalità organizzata è stata incapace di penetrare nella zona.
A sole 16 miglia a nord dalla città coloniale di San Cristóbal de las Casas, un grande cartello accoglie gli stranieri a Oventik, un’enclave zapatista. Dice: “In questo luogo il popolo governa, e il governo obbedisce”. Le guardie sorvegliano 24 ore al giorno, interrogando rigorosamente gli stranieri circa la loro attività e, spesso, allontanandoli.
I negozi vendono magliette con la popolare immagine del Subcomandante Marcos che indossa il passamontagna e fuma la pipa, con frasi iconiche come: “Scusate il disturbo, questa è una rivoluzione”.
Enormi murali colorati con slogan rivoluzionari, ricoprono ogni edificio sia nella lingua locale Tzotzil che in spagnolo. Né l’alcool né l’uso o la coltivazione di droghe illegali sono permessi. I contadini coltivano invece caffè, miele e fiori. La gente fabbrica scarpe, vende tortillas e vive in un sistema comunitario, condividendo le responsabilità e il potere decisionale nelle cosiddette Giunte di Buon Governo.
“Gli Stati Uniti sembrano destinati, per provvidenza, a impestare l’America Latina con la miseria in nome della libertà”, recita un cartello trascurato appeso al centro di una polverosa sala da pranzo.
Il modello zapatista di organizzazione comunitaria e il nuovo movimento politico che sostiene Patricio alla presidenza, hanno dato speranza ad alcuni messicani emarginati che il loro modo di governare può essere diverso e, meglio ancora, con un sistema più democratico privo di quella politica fatta di accordi e patrocini che regna praticamente su ogni livello di governo.
“Loro sono quelli che hanno sostenuto e nutrito la nostra speranza nel corso degli anni”, ha dichiarato Maribel Cervantes, organizzatrice comunitaria dello stato di Veracruz, riferendosi agli zapatisti. “Sono l’esempio vivente di quanto le cose possono essere diverse”, ha aggiunto. “E ora questa candidata può essere un raggio di luce nell’oscurità”.
Traduzione di 20ZLN