UNA PROSPETTIVA INTERSEZIONALE SU ROMA

Che sia per la strada verso gli Oscar, per la questione sulla distribuzione cinematografica o per le accuse di anti-femminismo, il film “Roma” di Alfonso Cuaròn sembra essere al centro del dibattito del momento, un dibattito non unicamente cinefilo ma carico di valenza politica e di politica di genere.

Nonostante lo stesso Cuaròn abbia ammesso di non aver avuto l’intenzione di girare un film prettamente militante, affermando in un’intervista di voler solamente “inserire una donna ben precisa in uno scenario sociopolitico ben preciso, ma soprattutto analizzare le relazioni affettive di un gruppo di personaggi e le conseguenze emotive che questi rapporti comportano. La politica non spetta a me”, il contenuto del suo film ritrae una realtà che non può non essere impregnata di un contenuto politico.

Il film, semi-autobiografico dell’autore, segue la vita di Cleo, una donna indigena che lavora come domestica nella casa di una famiglia medio-alto borghese di Città del Messico.

La politica messicana degli anni settanta resta un rumore di fondo, che non può che essere cornice, perché la vita di Cleo è una vita che ruota intorno alla casa. Vediamo l’addestramento dei Los Halcones, un gruppo scelto dell’esercito messicano (utilizzato per omicidi e repressione in azione tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70), vediamo il progressivo insorgere dei movimenti, dopo che il presidente Álvarez aveva permesso ad alcuni leader dei moti del ’68 di tornare dall’esilio in Cile e molti attivisti erano stati liberati dal carcere, vediamo in tutto il suo orrore il poco ricordato massacro dell’Halconazo del 10 giugno 1971, in cui vennero uccisi 120 manifestanti.

Tuttavia, pur non avendo come protagonista un personaggio “politico”, raccontare la storia di una donna indigena significa ritrarre una persona che racchiude in sé, per il solo fatto di esistere, molteplici conflitti. Cleo rappresenta un’incarnazione delle oppressioni comuni a moltissime donne indigene, come le contraddizioni in seno alla società messicana degli anni 70’.

Cleo vive sulla sua pelle le discriminazioni date dal suo essere indigena, dall’essere una donna e dall’essere una donna povera.

Come disse la Comandanta Esther degli EZLN “noi indigene soffriamo 3 volte in più, una per essere donna, due per essere indigena, tre per essere povera”. Questa frase venne pronunciata in un discorso durante l’ultima tappa della Otra Campana, al centro dello Zòcalo, la Piazza della Costituzione, nel centro dell’identità nazionale messicana, verso e contro il cuore dell’idea di identità messicana.

Credo che il personaggio di Cleo porti avanti il medesimo messaggio con la sua sola esistenza dietro la macchina da presa. Cleo è un esempio della triplice oppressione narrata da Esther e problematizzata dal femminismo intersezionale.

Femminismo intersezionale significa riconoscere la molteplicità e contemporaneità delle matrici di dominazione, come genere, etnia e classe, e l’indigeneità è una di queste.

Per questo mi sembra importante segnalare che, nella critica di Non Una Di Meno Milano, Cleo viene definita una “gringa”. Gringa è un termine dispregiativo riferito agli yankees, ai bianchi statunitensi, e definire una donna indigena con una simile terminologia è un gravissimo rischio. Chiamare Cleo “gringa” significa invisibilizzare il suo essere indigena, significa invisibilizzare il portato degli strascichi coloniali vissuti dalle popolazioni indigene messicane. L’essere indigena è una chiave di lettura fondamentale dell’esistenza del personaggio

Certo, la figura di Cleo non è un figura attivamente ribelle ma ritrarre un soggetto che vive una triplice oppressione, raccontarla significa mettere in luce quella realtà e, perché no, analizzarla.

Le critiche hanno da una parte esaltato dall’altra criticato una supposta resilienza antifemminista, una supposta bontà femminile e visione romantica del lavoro di cura.

Questo elogio alla resilienza o alla cura femminile non l’abbiamo visto e non troviamo certo motivo di critica al film il fatto che esistano opinioni di alcuni critici che raccontano la pellicola come apologia del lavoro di cura silenzioso e condiscendente.

Non troviamo quest’apologia perché Roma per noi ha un gusto neorealista che si astiene dai giudizi morali e prova a dipingere la realtà in modo crudo, mai da troppo vicino.

Il film è in bianco e nero, essenziale e uno dei primi commenti che mi sono arrivati riguardavano la sua lentezza. Tuttavia, il film segue, nel suo realismo, fedelmente la condizione che può vivere una domestica. Quindi vediamo Cleo pulire, rassettare, ordinare, aprire il cancello, curare i bambini, fare i panni, portare il tè, rispondere al telefono e alla fine del film ero già esausta per lei. Come raccontava Zavattini, sceneggiatore di De Sica, parlando del neorealismo con un produttore statunitense, “- Da noi la scena di un aeroplano che passa viene concepita così: passa un aeroplano…mitragliatrice che spara… l’aeroplano cade. Da voi: passa un aeroplano… l’aeroplano passa di nuovo…l’aeroplano passa ancora una volta.- E è vero. Ma siamo ancora indietro. Non basta far passare l’aeroplano tre volte, occorre farlo passare venti volte..”.

Fa sorridere che Roma inizi proprio con una aereo che passa, riflesso nell’acqua insaponata che viene increspata da un mocio che pulisce il pavimento. In tutti questi gesti quotidiani e dalle tecniche cinematografiche emerge l’essenza neorealista del film. La magia del neorealismo è proprio la capacità di mettere in scena in modo artificiale una realtà che sembra però esistere oltre la telecamera, una realtà cruda, poco manipolata.

È con questa chiave che bisogna guardare al cinema di Cuaròn, come un lavoro inquisitore realista della realtà, come la narrazione di un’esistenza che non lascia nascoste ambiguità e confusione ma che riprende il soggetto nella sua interezza e complessità.  Come affermava Rossellini “Oggetto vivo del film realistico è “il mondo”, non la storia, non il racconto. Esso non ha tesi pre-costituite perché nascono da sé. Non ama il superfluo e lo spettacolare, che anzi rifiuta; ma va al sodo. Non si ferma alla superficie, ma cerca i più sottili fili dell’anima. Rifiuta i lenocini e le formule, cerca i motivi che sono dentro ognuno di noi. Il film realistico è in breve il film che pone e si pone dei problemi: il film che vuole far ragionare”.

È questo che Roma porta avanti. Roma racconta di una condizione non accettabile e non condivisibile ma che alza questioni fondamentali per il femminismo e per i movimenti indigeni.

Un altro motivo che ha fatto dubitare di aver visto lo stesso film di chi ha scritto determinate critiche è che la Cleo che abbiamo visto non è apparsa per nulla semplice né tantomeno silenziosa.

È una figura complessa, ovviamente anche contraddittoria, ma definirla resiliente è riduttivo.

Non è Aibleen Clark, la domestica di colore, amorevole e dedita di “The Help”, che la stessa Viola Davis si è pentita di aver interpretato in modo così edulcorato.

Cleo è silenziosa ma questo non significa che sia felice nella sua condizione di subalternità. Cleo non protesta apertamente ma non tutti hanno il lusso di poter perdere il lavoro. Cleo fa il suo lavoro ma non sempre rispetta la clausola lavorativa della relazione affettiva retribuita, così comune ai lavori di cura. Cleo fa il suo lavoro ma non è intrinsecamente materna, lei stessa ammette, anche se con senso di colpa, che non vuole essere madre, che ha pregato perché succedesse qualcosa al figlio che ha in grembo. Cleo non è un soggetto ribelle, è un soggetto oppresso ripreso nella sua quotidianità ma non per questo non merita rilievo. Cleo è una pillola amara da buttare giù.

Va ricordata perché Cleo è esistita e continua esistere, mostrare un soggetto tale sullo schermo significa di problematizzare la sua condizione. Cuaròn sceglie di non lasciare ai margini una soggettività che vive ai margini, la fa protagonista.

La vita di Cleo è la vita di una domestica ma raccontarlo non significa esaltare il lavoro di cura. Cleo fa la domestica perché, allora e adesso, le possibilità lavorative per le donne indigene sono estremamente limitate. Non è sufficiente l’analisi femminista che inquisisce la divisione del lavoro e il determinismo biologico nella propensione per campi lavorativi. È importante avvalersi dell’intersezionalismo e ricordarsi che Cleo è indigena e povera, oltre ad essere donna.

Per non parlare poi, di come il conflitto di classe nel lavoro di cura venga problematizzato attraverso piccoli gesti, dalla paura di Cleo di dire alla padrona di essere incinta perché non vuole essere licenziata, alla nonna dei bambini che dimostra un disinteresse disumanizzante per la sua dipendente quando accompagna Cleo all’ospedale e non conosce l’età, la data di nascita o il cognome della ragazza.

La contraddizione è evidente nel contrasto tra la pretesa bontà femminile della cura di Cleo nei confronti di tutti gli abitanti della casa e la sua non esistenza per i soggetti padroni.

Per non parlare della tematica della salute per la popolazione indigena messicana, delle gravidanze indesiderate, degli aborti taciuti o nemmeno proposti.

Cuaròn non racconta una donna ribelle ma il suo film non guarda nemmeno in modo positivo alla condizione delle donne indigene. Però la racconta in tutta la sua realtà. Non credo si debba cadere nell’errore della sinistra italiana del dopoguerra che condannava i film neorealisti perché erano carenti di espliciti messaggi o personaggi politici. Roma è un film pieno di cose non dette ma sulla punta della lingua, di cose non esplicite ma estremamente evidenti.

Un ulteriore elemento che molte recensioni si sono dimenticate di segnalare è che Roma ha aperto il primo festival del cinema organizzato dall EZLN, nelle comunità zapatiste.

È importante notare come la liberazione delle donne e la problematizzazione dell’intersezionalità delle oppressioni siano state al primo punto dell’agenda zapatista fin dall’inizio. Come le altre tematiche politiche, il femminismo in Chiapas ha assunto una forma particolare e dal basso, il femminismo indigeno zapatista è una realtà forte quanto particolare. Le donne indigene zapatiste vivono e hanno vissuto sulla loro pelle le stesse oppressioni di Cleo ma sono forti del loro processo collettivo di ribellione e liberazione. Non è un caso che, durante il festival zapatista, Yalitza Aparicio (l’attrice che interpreta Cleo) abbia ricevuto un riconoscimento dalla Capitana Insurgente Erika, la quale in passato era una lavoratrice domestica.

Cuaròn ha scelto di presentare il suo film a una platea di indigeni e, soprattutto, indigene. Crediamo che, se il film in sé non abbia un preciso messaggio politico, questo atto sia invece estremamente significativo, come lo è stata la sua ricezione.

Gli zapatisti hanno affermato che l’arte e, in questo caso il cinema, sono occasioni di guardare al mondo con uno sguardo critico e di immaginare altri mondi possibili.

Roma è una di queste occasioni.

È significativo che chi c’era al festival abbia visto delle ragazze indigene piangere durante la proiezione di Roma.

Cleo non è una ribelle come loro ma probabilmente parla a loro.