SubMoises-SupGaleano: 300.

Intervento della Commissione Sexta dell’EZLN all’Incontro delle Reti di Appoggio al CIG ed alla sua Portavoce.

(Versione ampliata)

Per ragioni di tempo l’intervento zapatista non era stato completo. Avevamo promesso che avremmo inviato le parti mancanti: qui di seguito la versione originale che include parti della trascrizione più quanto non detto. Di nulla. Prego.

 

300.

Prima parte:

UNA FINCA, UN MONDO, UNA GUERRA, POCHE PROBABILITÀ.

Agosto 2018.

Subcomandante Insurgente Galeano:

Buongiorno, grazie di essere venuti ed aver accettato il nostro invito e di condividere la vostra parola.

Iniziamo spiegando quale è il nostro modo di fare analisi e valutazioni.

Noi incominciamo con l’analizzare che cosa succede nel mondo, poi scendiamo a vedere che cosa succede nel continente, poi che cosa succede nel paese, poi nella regione e poi localmente. E da qui tiriamo fuori un’iniziativa e cominciamo a farla uscire dal contesto locale a quello regionale, poi nazionale, poi continentale e poi nel mondo intero.

Secondo il nostro pensiero, il sistema dominante a livello mondiale è il capitalismo. Per spiegarcelo e per spiegarlo agli altri, usiamo l’immagine di una finca, una tenuta.

Chiedo al Subcomandante Insurgente Moisés di parlarcene.

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Subcomandante Insurgente Moisés:

Dunque compagni, compagne, abbiamo intervistato compagni e compagne bisnonni e bisnonne che nella loro vita hanno vissuto nelle fincas – alcuni di loro sono ancora vivi e vive – Quello che ci hanno raccontato ci ha fatto pensare – diciamo ora – che i ricchi, i capitalisti, vogliono trasformare il mondo in una loro proprietà, una loro finca.

C’è il fattore, il proprietario terriero, il padrone di migliaia di ettari di terra che può anche non esserci perché il padrone ha il suo caposquadra che si prende cura della finca, ed il caposquadra cerca il suo maggiordomo che è quello che va a controllare che si lavori la sua terra; e questo caposquadra, su ordine del padrone, deve cercare un caporale che si occupa di controllare tutto intorno alla tenuta, alla sua casa. Ci hanno raccontato delle diverse cose che si fanno in una finca: c’è la finca dove si alleva il bestiame, c’è la finca dove si coltiva il caffè, c’è la finca della canna da zucchero, dove si fa il panetto di zucchero, e di milpa e di fagioli. Allora combinano il tutto; cioè in una proprietà di 10 mila ettari si fa tutto, c’è l’allevamento, la lavorazione della canna, la coltivazione di fagioli, la milpa. Allora per tutta la sua vita la gente circola lì, lavora lì – come servi, la gente che soffre lì -.

Il caposquadra arrotonda poi la sua paga rubando al padrone quello che produce la finca. Cioè, oltre a quello che gli dà il padrone, il finquero, il caposquadra ha il suo guadagno nel rubare. Per esempio, se nascono 10 vitelle e 4 torelli, il caposquadra non lo riferisce esattamente, ma dice al padrone che sono nate solo 5 vitelle e 2 torelli. Se il padrone poi si accorge dell’inganno caccia via il caposquadra e ne mette un altro. Ma il caposquadra ruba sempre qualcosa, e questa si chiama corruzione.

Ci raccontano che quando il padrone non c’è ed anche il caposquadra vuole uscire dalla finca, allora cerca qualcuno di lì, qualcuno stronzo come lui al quale lasciare l’incarico, andarsene e poi tornare a riprendere il suo ruolo di caposquadra.

Dunque, vediamo che il padrone non c’è, è da un’altra parte, ed il caposquadra è il Peña Nieto della situazione. Quindi noi diciamo che il maggiordomo sono i governatori, ed i caporali i presidenti municipali. Tutto è strutturato secondo una scala di potere.

Vediamo anche che caposquadra, maggiordomo e caporale sono quelli che pretendono dalla gente. E lì nella finca, ci raccontano i bisnonni, c’è un negozio che chiamano negozio a credito, vuol dire che nel negozio ci si indebita; quindi gli sfruttati e le sfruttate che vivono lì, servi o serve, comprano nel negozio il sale, il sapone, quello di cui necessitano, cioè, non hanno denaro; lì il padrone ha il suo negozio e lì si indebitano per comprare sale, sapone, machete, la zappa, e non pagano con denaro bensì con la loro forza lavoro.

I bisnonni ci raccontano, donne e uomini, che il padrone dava loro poco da mangiare, giusto il necessario per arrivare al giorno dopo e lavorare per lui, e così per tutta la loro vita.

E confermiamo quello che raccontano i nostri bisnonni perché quando siamo usciti nel ’94, quando abbiamo occupato le fincas per cacciare quegli sfruttatori, abbiamo incontrato capisquadra e acasillados che, abituati ai loro negozi a credito, ci dicevano che non sapevano cosa fare e dove andare a procurarsi il sale, il sapone, perché non c’era più il loro padrone. Ci domandavano chi sarebbe stato il nuovo padrone, perché non sapevano davvero cosa fare.

Allora noi dicemmo loro: adesso siete liberi, lavorate la terra, è vostra, come quando c’era il padrone a sfruttarvi ma ora lo fate per voi, per la vostra famiglia. Ma loro non capivano, dicevano no, che la terra era del padrone.

E lì abbiamo capito che c’è gente ormai assuefatta alla schiavitù. E se hanno la libertà, non sanno che farne perché sanno solo ubbidire.

E questo succedeva 100 anni fa, più di 100 anni, come ci hanno raccontato i nostri bisnonni – uno di loro ha più o meno 125, 126 anni adesso, e l’abbiamo intervistato più di un anno fa -.

E vediamo che ancora continua così. Oggi pensiamo che il capitalismo è così. Vuole trasformare il mondo in una finca. Cioè, gli impresari transnazionali: “Vado nella mia finca La Mexicana”, secondo come gli pare; “vado nella mia finca La Guatemalteca, L’Onduregna”, e così via.

Ed il capitalismo cominciava ad organizzarsi secondo i suoi interessi, come ci raccontano i nostri bisnonni in una finca ci può essere di tutto, caffè, bestiame, mais, fagioli, mentre in un’altra solo canna da zucchero o altro. Ogni finquero si organizzava.

Non ci sono padroni buoni, sono tutti cattivi.

Benché i nostri bisnonni ci raccontano che ce n’era qualcuno buono – dicono – ma analizzando bene, erano buoni perché semplicemente non c’era tanto maltrattamento fisico, per questo i nostri bisnonni dicono che ce n’era qualcuno buono, ma non si salvavano dallo sfruttamento. In altre fincas c’erano invece molti maltrattamenti.

Dunque pensiamo che tutto quello che hanno passato loro succederà a noi, ma ora non più solo nelle campagne, ma nelle città. Perché non è lo stesso capitalismo di 100, 200 anni fa, i suoi modi di sfruttamento sono diversi e non sfrutta più solo nelle campagne, ma anche nelle città. Il suo sfruttamento cambia modalità, ma è ugualmente sfruttamento. È la stessa gabbia di reclusione, ma ogni tanto la ridipingono, come nuova, ma è la stessa.

Ma c’è comunque gente che non vuole la libertà, ma si è già abituata ad ubbidire e vuole solo un cambio di padrone, di caposquadra, che non sia così stronzo, che la sfrutti ma che la tratti bene.

Ma noi non lo perdiamo di vista, è solo iniziato, già.

Quello che ci cattura l’attenzione è se ci sono altri, altre, che vedono, pensano: faranno così con noi?

E che cosa faranno queste sorelle e fratelli? Si accontenteranno di un cambio di caposquadra o di padrone, o vogliono la libertà?

Questo è quello che mi tocca spiegarvi ed è quello che pensiamo e vediamo con i compagni, e le compagne, come Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.

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Subcomandante Insurgente Galeano:

Quella che noi vediamo a livello mondiale è un’economia predatrice. Il sistema capitalista sta avanzando in modo da conquistare territori distruggendo più che può. Contemporaneamente c’è un’esaltazione del consumo. Sembra che il capitalismo non sembri più preoccupato per chi produce le cose, per questo ci sono le macchine, ma non ci sono macchine che consumano merci.

In realtà, questa esaltazione del consumo nasconde uno sfruttamento brutale e la depredazione sanguinaria dell’umanità che non appaiono nell’immediatezza della produzione moderna di merci.

La macchina che, automatizzata all’estremo e senza la partecipazione umana, fabbrica computer o cellulari non si regge sull’avanzamento scientifico e tecnologico, ma sul saccheggio delle risorse naturali (la necessaria distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordinamento di territori) e sulla disumana schiavitù di migliaia di infime, piccole e medie cellule di sfruttamento della forza lavoro umana.

Il mercato (questo gigantesco magazzino di merci) contribuisce al miraggio del consumo: le merci appaiono al consumatore come “aliene” al lavoro umano (cioè, al suo sfruttamento) ed una delle conseguenze “pratiche” è dare al consumatore (sempre individualizzato) l’opzione di “ribellarsi” scegliendo un mercato o un altro, un consumo o un altro, o rifiutando un consumo specifico. Non si vuole consumare cibo spazzatura? Non c’è problema, sono in vendita anche prodotti alimentari biologici ed ad un prezzo più elevato. Non consuma note bibite di cola perché sono dannose per la salute? Nessun problema, l’acqua imbottigliata è commercializzata dalla stessa azienda. Non vuole consumare nelle grandi catene di supermercati? Non c’è problema, la stessa azienda fornisce la boutique dietro l’angolo. E così via.

Dunque sta organizzando la società mondiale dando, apparentemente, priorità al consumo, tra altre cose. Il sistema funziona con questa contraddizione (tra le altre): vuole disfarsi della forza lavoro perché il suo “uso” presenta diversi problemi (per esempio: tende ad organizzarsi, protestare, fare presidi, scioperi, sabotaggi della produzione, allearsi con altr@); ma contemporaneamente ha bisogno del consumo di merci da parte di questa merce “speciale”.

Per quanto il sistema miri ad “automatizzarsi”, lo sfruttamento della forza lavoro gli è fondamentale. Non importa quanto consumo mandi alla periferia del processo produttivo, o quanto estenda la catena di produzione in modo che sembri (“simulare”) che il fattore umano sia assente: senza la merce essenziale (la forza lavoro) il capitalismo è impossibile. Un mondo capitalista senza lo sfruttamento, dove prevale solo il consumo, è buono per la fantascienza, le elucubrazioni sui social network ed i languidi sogni degli ammiratori dei suicidi della sinistra aristocratica.

Non è l’esistenza del lavoro che definisce il capitalismo, bensì la caratterizzazione della capacità di lavoro come una merce che si vende e si compra sul mercato del lavoro. Questo vuol dire che c’è chi vende e c’è chi compra; e, soprattutto, che c’è chi ha solo l’opzione di vendersi.

La possibilità di comprare la forza lavoro è data dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, di circolazione e consumo. Nella proprietà privata di questi mezzi sta il nucleo vitale del sistema. Su questa divisione di classe (proprietaria e diseredata) e per occultarla, si costruiscono tutte le simulazioni giuridiche e mediatiche, così come le evidenze dominanti: la cittadinanza e l’uguaglianza giuridica; il sistema penale e di polizia, la democrazia elettorale e l’intrattenimento (sempre di più difficili da distinguere); le nuove religioni e le presunte neutralità delle tecnologie, le scienze sociali e le arti; il libero accesso al mercato e al consumo; e le sciocchezze (più o meno elaborate) del “cambiamento sta in se stessi”, “ognuno è artefice del proprio destino”, “far buon viso a cattivo gioco”, “non dare un pesce all’affamato, ma insegnagli a pescare” (“e vendigli la canna da pesca”) e, ora di moda, i tentativi di “umanizzare” il capitalismo, renderlo buono, razionale, disinteressato, light.

Ma la macchina esige profitti ed è insaziabile. Non c’è limite alla sua ingordigia. E la smania di profitto non ha etica né razionalità. Se deve uccidere, uccide. Se deve distruggere, distrugge. Anche se fosse il mondo intero.

Il sistema avanza nella sua riconquista del mondo. Non importa quello che si distrugga, rimanga o avanzi: è eliminabile finché si ottiene il massimo profitto ed il più rapidamente possibile. La macchina sta tornando ai metodi che gli diedero origine – per questo vi raccomandiamo di leggere l’Accumulazione Originaria del Capitale – che è mediante la violenza e attraverso la guerra che si conquistano nuovi territori.

Ma il capitalismo, con il neoliberismo, ha lasciato in sospeso una parte della conquista del mondo ed ora deve completarlo. Nel suo sviluppo, il sistema “scopre” che sono apparse nuove merci e queste nuove merci si trovano nel territorio dei popoli originari: l’acqua, la terra, l’aria, la biodiversità; tutto ciò che ancora non è addomesticato si trova nei territori dei popoli originari e ci si buttano sopra. Quando il sistema cerca (e conquista) nuovi mercati, non sono solo mercati di consumo, di compra-vendita di merci; anche, e soprattutto, cerca e tenta di conquistare territori e popolazioni per tirarne fuori tutto il possibile, non importa che, alla fine, lasci dietro di se una landa desolata come eredità e traccia del suo passaggio.

Quando una società mineraria invade un territorio degli originari con la scusa di offrire “posti di lavoro” alla “popolazione autoctona” (mi sembra che ci chiamino così), non solo sta offrendo a questa gente i soldi per comprare un nuovo cellulare di gamma più alta, ma sta anche scartando una parte di questa popolazione e sta annichilendo (nel vero senso della parola) il territorio sul quale opera. Lo “sviluppo” ed il “progresso” che offre il sistema, in realtà nasconde che si tratta del proprio sviluppo e progresso e, cosa più importante, nasconde che questo sviluppo e progresso si ottengono a costo della morte e la distruzione di popolazioni e territori.

Su questo si fonda la cosiddetta “civiltà”: quello di cui hanno bisogno i popoli originari è “uscire dalla povertà”, cioè hanno bisogno di soldi. Quindi si offre “lavoro”, ovvero, imprese che “contrattino” (sfruttino) gli “aborigeni” (così ci chiamano).

Civilizzare” una comunità originaria è trasformare la sua popolazione in forza lavoro salariata, cioè, con capacità di consumo. Per questo tutti i programmi dello Stato prevedono “l’incorporazione della popolazione emarginata alla civiltà”. E, di conseguenza, i popoli originari non chiedono rispetto per i loro tempi e modi di vita, ma “aiuti” per “collocare i loro prodotti sul mercato” e “per avere un lavoro”. In sintesi: l’ottimizzazione della povertà.

E per “popoli originari” ci riferiamo non solo ai cosiddetti “indigeni”, ma a tutti i popoli che originalmente si prendevano cura dei territori che oggi sono sotto le guerre di conquista, come il popolo curdo, e che sono sottomessi con la forza nei cosiddetti Stati Nazionali.

La cosiddetta “forma Nazione” dello Stato nasce con l’ascesa del capitalismo come sistema dominante. Il capitale aveva bisogno di protezione e aiuti per la sua crescita. Lo Stato assume così la sua funzione essenziale (la repressione), quella di essere garante di questo sviluppo. Certo, allora si disse che era per normare la barbarie, “razionalizzare” le relazioni sociali e “governare” per tutti; “mediare” tra dominatori e dominati.

La “libertà” era la libertà di comprare e vendere (vendersi) sul mercato; la “uguaglianza” era per rendere coeso il dominio omogeneizzando; e la “fraternità”, bene, tutt@ siamo fratelli, il padrone e il lavoratore, il finquero e i peones, la vittima e il boia.

Poi si disse che lo Stato Nazionale doveva “regolamentare” il sistema, metterlo in salvo dai propri eccessi e renderlo “più equo”. Le crisi era il risultato di difetti della macchina e lo Stato (ed il governo in questione) era il meccanico efficiente sempre allerta per sistemare questi difetti. Chiaramente alla lunga è risultato che lo Stato (ed il governo in questione) era parte del problema, non la soluzione.

Ma gli elementi fondamentali di questo Stato Nazione (polizia, esercito, lingua, moneta, sistema giuridico, territorio, governo, popolazione, frontiera, mercato interno, identità culturale, ecc.) oggi sono in crisi: i poliziotti non prevengono i reati, li commettono; gli eserciti non difendono la popolazione, la reprimono; le “lingue nazionali” sono invase e modificate (cioè, conquistate) dalla lingua dominante nello scambio; le monete nazionali si valutano secondo le monete che egemonizzano il mercato mondiale; i sistemi giuridici nazionali si mettono in subordine alle leggi internazionali; i territori si espandono e contraggono (e frammentano) conformemente alla nuova guerra mondiale; i governi nazionali subordinano le decisioni fondamentali ai dettami del capitale finanziario; le frontiere variano di porosità (aperte per il traffico di capitali e merci, chiuse per le persone); le popolazioni nazionali si “mischiano” con quelle provenienti da altri Stati; e così via.

Mentre “scopre” nuovi “continenti” (cioè: nuovi mercati per estrarre merci e per il consumo), il capitalismo affronta una crisi complessa (per composizione, estensione e profondità) che esso stesso ha prodotto con la sua smania predatrice.

È una combinazione di crisi:

Una è la crisi ambientale che sta affliggendo tutte le parti del mondo e che è anche il prodotto dello sviluppo del capitalismo: l’industrializzazione, il consumo ed il saccheggio della natura hanno un impatto ambientale che altera quello che si conosce come “pianeta Terra”. Il meteorite “capitalismo” è già caduto ed ha modificato radicalmente la superficie e le viscere del terzo pianeta del sistema solare.

L’altra, è l’immigrazione. Si stanno pauperizzando e distruggendo interi territori ed obbligando la gente ad emigrare in cerca di una vita. La guerra di conquista che è l’essenza stessa del sistema non occupa più territori e la loro popolazione, ma relega quella popolazione al rango di “avanzi”, “rovine”, “macerie”, per cui quelle popolazioni o periscono o emigrano verso la “civiltà” che, non bisogna dimenticarlo, si regge sulla distruzione di “altre” civiltà. Se queste persone non producono né consumano, sono d’avanzo. Il cosiddetto “fenomeno migratorio” è prodotto e alimentato dal sistema.

Un’altra – su cui concordiamo con vari analisti in tutto il mondo – è l’esaurimento delle risorse che fanno funzionare “la macchina”: le risorse energetiche. I “picchi” finali di riserve di petrolio e carbone, per esempio, sono ormai molto vicini. Queste risorse energetiche si esauriscono e sono molto limitate, per la loro riproduzione ci vorrebbero milioni di anni. Il prevedibile ed imminente esaurimento fa sì che i territori con le riserve – benché limitate – di risorse energetiche siano strategici. Lo sviluppo di fonti di energia “alternative” procede troppo lentamente per la semplice ragione che non è redditizio, cioè, non ripaga subito l’investimento.

Questi tre elementi di questa complessa crisi mettono in dubbio l’esistenza stessa del pianeta.

La crisi terminale del capitalismo? Nemmeno per sogno. Il sistema si è dimostrato capace di superare le proprie contraddizioni e, perfino, di funzionare con queste ed in esse.

Dunque, di fronte a queste crisi che lo stesso capitalismo provoca, che provoca migrazione, provoca catastrofi naturali; che si avvicina al limite delle sue risorse energetiche fondamentali (in questo caso il petrolio e il carbone), pare che il sistema si stia ripiegando verso l’interno, come un’antiglobalizzazione, per poter difendersi da sé stesso e sta usando la destra politica come garante di questo ripiegamento.

Questa apparente contrazione del sistema è come una molla che si ritrae per poi espandersi. In realtà, il sistema si sta preparando alla guerra. Un’altra guerra. Una guerra totale: da tutte le parti, tutto il tempo e con tutti i mezzi.

Si stanno costruendo muri legali, muri culturali e muri materiali per tentare di difendersi dalla migrazione che loro stessi hanno provocato; e si sta tentando di tornare a mappare il mondo, le sue risorse e le sue catastrofi, per gestire le prime affinché il capitale mantenga il suo funzionamento, e le seconde per fare sì che non colpiscano troppo pesantemente i centri di Potere.

Secondo noi, questi muri continueranno a proliferare fino a che si costruirà una specie di arcipelago “di sopra” dove, dentro “isole” protette ci siano i padroni, diciamo, quelli che posseggono la ricchezza; e fuori da quegli arcipelaghi rimangano tutti gli altri. Un arcipelago con isole per i padroni e con isole differenziate – come le fincas – con lavori specifici. E, molto a parte, le isole perse, quelle delle/degli eliminabili. Ed in mare aperto, milioni di chiatte che deambulano da un’isola all’altra cercando un luogo per attraccare.

Fantascienza di manifattura zapatista? Googlate “Nave Aquarius” e guardate la distanza che corre tra quello che descriviamo e la realtà. Alla nave Aquarius diverse nazioni d’Europa hanno negato l’attracco in porto. La ragione? Il carico letale che trasporta: centinaia di migranti provenienti da paesi “liberati” dall’Occidente con guerre di occupazione e da paesi governati da tiranni col beneplacito dell’Occidente.

Occidente”, il simbolo della civiltà per auto definizione, va, distrugge, spopola e si ripiega e chiude, mentre il grande capitale prosegue nei suoi affari: ha prodotto e venduto le armi di distruzione, produce anche e vende le macchine per la ricostruzione.

E chi appoggia questo ripiegamento è la destra politica in varie parti. Cioè, i capisquadra “efficienti”, quelli che controllano la marmaglia ed assicurano il profitto al finquero… anche se più di uno, una, unoa, ruba parte delle vitelle e torelli. Inoltre, “maltrattano” troppo la loro rispettiva popolazione acasillada.

Tutti quelli che avanzano, o consumano o bisogna annichilirli, bisogna farli da parti, sono – diciamo noi – le/gli eliminabili. In questa guerra non contano neanche come “vittime collaterali”.

Non è che qualcosa sta cambiando, è già cambiato.

Ed ora usiamo i simili ai popoli originari perché per molto tempo, nella tappa precedente lo sviluppo del capitalismo, i popoli originari erano rimasti dimenticati. Prima noi abbiamo usato l’esempio dei neonati indigeni che erano i non-nati perché nascevano e morivano senza che nessuno ne tenesse il conto, e quei non-nati vivevano in queste zone, per esempio, in queste montagne che prima non interessavano a loro. Le terre buone (le “planadas“, le chiamiamo noi) furono occupate dalle fincas, le grandi tenute dei grandi proprietari, e cacciarono gli indigeni sulle montagne, e adesso risulta che quelle montagne hanno delle ricchezze, merci che vuole anche il capitale e quindi non c’è più un posto dove andare per i popoli originari.

O lottano e difendono fino alla morte questi territori, o non c’è altra strada. Perché non ci sarà una nave che li raccolga quando navighino nelle intemperie tra le acque e le terre del mondo.

È in marcia una nuova guerra di conquista dei territori degli originari e la bandiera che sventola l’esercito invasore a volte ha anche i colori della sinistra istituzionale.

Questo cambiamento nella macchina per quanto riguarda le campagne o “zone rurali” che si può vedere perfino ad un’analisi superficiale, si presenta anche nelle città o “zone urbane”. Le grandi città si sono riordinate o si trovano in questo processo, dopo o durante una guerra spietata contro i suoi abitanti marginali. Ogni città ne contiene molte altre, ma una centrale: la città del capitale. I muri che circondano questa città sono formati da leggi, piani di urbanizzazione, poliziotti e gruppi di scontro.

Il mondo intero si frammenta; proliferano i muri; la macchina avanza nella sua nuova guerra di occupazione; centinaia di migliaia di persone scoprono che la nuova casa promessa loro dalla modernità è una chiatta in alto mare, il bordo di una strada, o l’affollamento di un centro di detenzione per “clandestini”; milioni di donne imparano che il mondo è un gigantesco club di caccia dove loro sono la preda da catturare; l’infanzia si alfabetizza come merce sessuale e lavorativa e la natura presenta il conto del lungo debito che, nel suo saldo in rosso, accumula il capitalismo nella sua breve storia come sistema dominante.

Certo, manca quello che dicono le donne che lottano, loas otroas del basso (per le quali ci sono solo disprezzo, persecuzione e morte), chi passa le notti nei quartieri popolari e trascorre il giorno a lavorare nella città del capitale, le/i migranti che ricordano che questo muro non è lì dalla notte dei tempi, i famigliari di desaparecid@s, assassinat@ ed incarcerat@ che non dimenticano né perdonano, le comunità rurali che scoprono di essere state ingannate, le identità che si scoprono differenti e suppliscono alla vergogna con l’orgoglio, e tutte, tutti, todoas le/gli eliminabili che comprendono che il destino non deve essere quello della schiavitù, dell’oblio o della morte mortale.

Perché un’altra crisi che passa inosservata è l’emergenza e la proliferazione di ribellioni, di nuclei umani organizzati che sfidano non solo il Potere ma anche la sua logica perversa e disumana. Diversa nella sua identità, cioè, nella sua storia, questa irruzione appare come un’anomalia del sistema. Questa crisi non conta per le leggi delle probabilità. Le sue possibilità di mantenersi ed approfondirsi sono minime, quasi impossibili. Per questo, dall’alto non la considerano.

Delle ribellioni, per la macchina, non c’è da preoccuparsi. Sono pochi, poche e pocoas, forse arrivano a 300.

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È sicuro che questa visione del mondo, la nostra, sia incompleta e che, con un alto grado di probabilità, sia erronea. Ma così è come vediamo il sistema a livello mondiale. E da questa valutazione segue quello che guardiamo e valutiamo ai livelli continentale, nazionale, regionale e locale.

(Continua…)

 

UN CONTINENTE COME CORTILE, UN PAESE COMO CIMITERO, UN PENSIERO UNICO COME PROGRAMMA DI GOVERNO, ED UNA PICCOLA, MOLTO PICCOLA, PICCOLISSIMA RIBELLIONE. #SubcomandanteInsurgenteMoisés, #SupGaleano

Dal mondo scendiamo al continente.

Se guardiamo in alto…

Vediamo gli esempi di Ecuador, Brasile ed Argentina, dove non solo si spodestano i governi che si presumono progressisti, ma si perseguono anche giuridicamente ed al loro posto ascendono governi addestrati come buoni capisquadra, o capisquadra ubbidienti al capitale (benché, siamo giusti, sono abbastanza rozzi anche nel loro cinismo) per il nuovo riaccomodamento della finca mondiale, che sono come Temer in Brasile, Macri in Argentina, ed in Ecuador quello che era bravo perché ce l’aveva messo l’adesso perseguito Correa (quello della “rivoluzione civica” – “di sinistra”, così lo vendette l’intellighenzia progressista -) e che ora risulta essere di destra, Lenin Moreno – paradossalmente si chiama Lenin -.

Sotto la vigilanza dello Stato che si è trasformato nel poliziotto della regione – la Colombia – e da cui si minaccia, si destabilizza e si programmano provocazioni che giustifichino invasioni di “forze di pace”, in tutto il Sudamerica si torna ai tempi brutali della Colonia, ora col “nuovo” estrattivismo che non è altro che l’ancestrale saccheggio delle risorse naturali, tipificate come “materie prime”, e che nei governi progressisti della regione si avalla e si promuove come “estrattivismo di sinistra” – che è qualcosa come un capitalismo di sinistra o una sinistra capitalista o vai a sapere che cosa vuole dire -, ma ugualmente distruggono e spogliano, ma è per una “buona causa” (?). Qualunque critica o movimento di opposizione alla distruzione dei territori degli originari è catalogata come “promossa dall’Impero”, “di stampo conservatore”, ed altri equivalenti a “è un complotto della mafia del Potere”.

Insomma, nel continente il “cortile” del Capitale si estende fino a Capo Horn.

Ma se guardiamo in basso…

Vediamo ribellioni e resistenze, prima di tutto dei popoli originari. Sarebbe ingiusto nominarli tutti perché si correrebbe il rischio di ometterne alcuni. Ma la loro identità risalta nella loro lotta. Lì dove la macchina incontra resistenza al suo avanzare predatorio, la ribellione si veste di colori nuovi tanto antichi e parla lingue “strane”. La depredazione, anche mascherata di reddito della terra, vuole imporre la sua logica mercantile a chi si rapporta alla terra come la madre.

Queste resistenze sono accompagnate da gruppi, collettivi ed organizzazioni che, senza essere propriamente degli originari, condividono con loro impegno e destino, cioè, cuore. Per questo subiscono calunnie, persecuzioni, incarceramenti e, non poche volte, la morte.

Per la macchina, gli originari sono cose, incapaci di pensare, sentire e decidere; cosicché non è aliena alla sua logica automatizzata il pensare che questi gruppi in realtà “dirigono”, “usano” e “male orientano” quelle “cose” (gli originari) che si rifiutano di abbracciare l’idea che tutto è una merce. Tutto, incluso la loro storia, lingua, cultura.

Per il sistema, il destino degli originari è nei musei, nelle facoltà di antropologia, i mercati artigianali, e l’immagine della mano tesa che chiede l’elemosina. Deve essere esasperante per i teorici ed avvocati della macchina, quell’analfabetismo che non capisce le parole: “consumo”, “profitto”, “progresso”, “ordine”, “modernità”, “conformismo”, “compra-vendita”, “rendimento”, “resa”. Per alfabetizzare questi riluttanti alla civilizzazione, vanno bene i programmi assistenziali che dividono e creano scontri, le sbarre della prigione, il piombo e la sparizione. E sì, c’è chi si vende e consegna i suoi al boia, ma ci sono comunità ancora ribelli perché sanno di essere nate per la vita, e che le promesse di “progresso” nascondono la morte peggiore: l’oblio.

Proseguiamo in Centroamerica (dove in Nicaragua si riedita Shakespeare, e la coppia Macbeth, Daniel e Rosario, si chiede “Chi si immaginava che il vecchio (Sandino) avesse così tanto sangue in corpo?” mentre tenta, invano, di ripulirsi le mani nella bandiera rosso-nera) che si sta trasformando da un territorio dimenticato (dopo uno spietato saccheggio), in un problema per il grande capitale perché è un importante fornitore e trampolino di migranti, ma il ruolo di muro passerà al Messico, ed in concreto al sudest messicano.

E vogliamo includere il Messico nell’America Centrale perché la sua storia lo richiama all’America Latina, ed anche sui mappamondi l’America Centrale è il braccio che si tendono coloro che sono gemellati dal dolore e dalla rabbia.

Ma ai diversi governi che hanno subito e subirà questo paese, ed alla sua classe politica, la vocazione straniera li porta ad ammirare, imitare, servire e procacciare “l’annessione dei popoli della nostra America al Nord sregolato e brutale che li disprezza” (José Martí, “Lettera a Manuel Mercado”, 18 maggio 1895).

Quando Donald Trump dice di voler costruire il muro, tutti pensano al Río Bravo, ma il capitale pensa al Suchiate, all’Usumacinta e al fiume Hondo. In realtà il muro sarà in Messico per fermare quelli che provengono dall’America Centrale e forse questo può aiutare a capire perché Donald Trump, il 1° luglio, si è congratulato con il Juanito Trump per aver vinto le elezioni in Messico.

Il senso di un muro lo dà la sua contrapposizione a “qualcosa”. Tutti i muri si erigono contro “qualcosa”; si chiamino zombi, extraterrestri, criminali, clandestini, migranti, “sans papiers“, illegali, alieni. I muri non sono altro che la porta e le finestre chiuse di una casa che così si protegge dallo straniero, dall’estraneo, da quell’Alien che con la sua diversità porta con se la promessa dell’apocalisse finale. Una delle radici della parola “etnia” riporta a “la gente straniera”.

Nei piani del capitale, il muro contro l’America Latina avrà la forma dell’impossibile cornucopia dell’abbondanza e si chiamerà “Messico”.

Nella regione sudorientale, come abbiamo già detto, si costruisce la prima tappa del muro di Trump. L’ufficio “nazionale” di Migrazione continuerà a comportarsi come subordinato della Border Patrol, e Guatemala e Belize sono l’ultima stazione prima di entrare nella dogana del Nord-America. Questo trasforma il sudest messicano in una delle priorità di conquista e di gestione.

Per questo nei nuovi piani “geopolitici” si propone di creare un “cuscinetto”, un “ammortizzatore”, un filtro che riduca drasticamente la migrazione. Si offre così un placebo per alleviare l’incubo del capitale: un’orda di zombi (cioè, di immigranti) ai piedi dei suoi muri che minacciano il suo stile di vita e “tracciano” sull’indifferente superficie di ferro e cemento il graffito che dice:

Il tuo benessere è costruito sulla mia disgrazia”.

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In questo paese, chiamata anche “Repubblica Messicana”, le passate elezioni federali sono riuscite ad occultare la realtà… per un istante: la crisi economica, la decomposizione sociale (con la sua lunga scia di femminicidi) ed il consolidamento (nonostante i presunti “colpi mortali” al narco) degli Stati paralleli (o sovrapposti a quello Nazionale) del cosiddetto “crimine organizzato”. Anche se per poco tempo, gli omicidi, i sequestri e le sparizioni di donne di tutte le età sono passati in secondo piano. La stessa cosa per la carestia e la disoccupazione. Ma, spentosi ormai l’entusiasmo per il risultato elettorale, la realtà torna a dire “sono qui, manca il mio voto… e la mia scure”.

Sull’orrore che ha trasformato il Messico in un cimitero e nel limbo, il non-luogo, delle sparizioni, non diremo molto. Basta leggere i giornali per farsene una vaga idea. Ma una descrizione, analisi e valutazione più profonda la si può trovare negli interventi di Jacobo Dayán, Mónica Meltis, Irene Tello Arista, Daniela Rea, Marcela Turati, Ximena Antillón, Mariana Mora, Edith Escareño, Mauricio González González e John Gibler presentati al semenzaio dell’aprile scorso, “Sguardi, Ascolti, Parole; Proibito Pensare?” che si è tenuto al CIDECI di San Cristóbal de Las Casas, Chiapas, e nei loro scritti, cronache, reportage e colonne. Ed anche così, leggere o ascoltare dell’orrore quotidiano è molto lontano dal viverlo nella quotidianità.

Al grande capitale non importano le sparizioni, i sequestri ed i femminicidi. Quello che lo preoccupa è la SUA sicurezza e quella dei SUOI programmi. La corruzione che lo disturba è quella che taglia i suoi profitti. Per questo gli viene proposto “Faccio io il caposquadra, terrò la marmaglia al lavoro tranquilla e contenta, tornerai ad avere la sicurezza che i governi passati ti hanno lesinato, ci guadagnerai tutto quello che vuoi e non ti ruberò niente”.

Al sistema continua a disturbare lo Stato Nazionale e sempre di più gli assegna l’unica funzione per la quale nasce qualsiasi Stato, cioè, assicurare con la forza il rapporto tra dominatori e dominati.

I piani di sviluppo dei nuovi governi in qualsiasi parte del mondo non sono altro che dichiarazioni di guerra particolari nei territori dove questi piani di sviluppo opereranno.

Se si parlasse seriamente, si direbbe che si propone di costruire lande e deserti e, contemporaneamente, si costruisce l’alibi per eludere la responsabilità di questa distruzione: “ti abbiamo annichilito, ma è stato per il bene di tutti”.

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Mi sono sbagliato. Noi avevamo previsto che ci sarebbe stata una frode elettorale (e c’è stata, ma in un altro senso). Avevamo previsto che López Obrador avrebbe vinto ma che il sistema gli avrebbe negato la vittoria con delle trappole. Ed abbiamo pensato a quali potevano essere le opzioni del sistema dopo questa frode. Secondo la nostra analisi, non preoccupava tanto lo scandalo perché il sistema aveva sopportato già quello della Casa Bianca, di Ayotzinapa, la Estafa Maestra [indagine giornalistica del portale Animal Politico che ha documentato un giro di corruzione nel governo dove sono stati deviati 400 milioni di dollari – N.d.T.], le corruzioni nei governi degli stati, quindi, nel caso di uno scandalo per una frode, a Peña Nieto non ne sarebbe venuto niente. Pensiamo che il dilemma del sistema fosse scegliere tra Meade ed Anaya, scegliere quale tra i due fosse più di destra, più efficiente per i suoi piani, chi di loro sarebbe stato il migliore caposquadra.

Le possibilità di una resistenza forte e radicale dell’allora candidato che sarebbe stato defraudato erano minime, niente di pericoloso per il sistema, ma ci sarebbero comunque state delle proteste. E per questo vi chiediamo scusa, perché considerando questo scenario abbiamo ritardato la convocazione alle reti, perché credevamo che ci sarebbero state proteste, blocchi e tutto il resto, e se vi invitavamo forse sareste rimasti bloccati da qualche parte; per questo la convocazione è arrivata tardi, scusate.

Noi, nosotroas, zapatiste, zapatisti, ci prepariamo sempre al peggio. Se succede, siamo preparati. Se non succede, fa lo stesso, siamo preparati comunque.

Ma adesso, per quello che stiamo vedendo pensiamo di non esserci sbagliati. In effetti il sistema ha scelto chi tra i quattro candidati si propone come il più efficiente, il signor López Obrador. E le prove d’amore che ha dato il signor López Obrador, o che sta dando questo signore al grande capitale, cioè al finquero, sono, tra le altre, la consegna dei territori dei popoli originari. I suoi progetti per il sudest, per citarne alcuni, per l’Istmo, per Chiapas, Tabasco, Yucatan e Campeche sono, in realtà, progetti di depredazione.

E la cosa principale che preoccupa un governo uscente è l’impunità, non i suoi indici di popolarità. Quindi il “voto” governativo doveva orientarsi verso chi gli garantiva di non essere perseguito. Che l’esilio o la prigione non fossero la necessaria risorsa della legittimità per il nuovo. Il nuovo caposquadra doveva promettere (e provare) che non avrebbe criminalizzato il caposquadra precedente.

Ma non crediate che il nuovo governo sia come qualunque altro caposquadra, con lui arriva il “nuovo” pensiero unico.

Si sta sviluppando una specie di nuova religione. Come se già non bastasse la religione del mercato presente in tutti i luoghi in cui i governi di destra si fanno strada al potere, ma è come una specie di nuova morale che si imporne con l’argomento quantitativo e che attacca l’ambito scientifico, l’arte e la lotta sociale.

Già le lotte non sono per una rivendicazione, ma ci sono lotte buone e lotte cattive. Per dirlo in maniera più comprensibile: ci sono le lotte buone e sono le lotte che servono alla mafia dal potere, l’arte “buona” che serva alla mafia del potere, la scienza “corretta” che serva alla mafia dal potere. Tutto ciò che non si orienti al nuovo pensiero unico che si sta delineando, è parte del nemico. E la fede, o la nuova fede che si sta sviluppando, necessita di un individuo eccezionale, da una parte, ed una massa che lo segua.

Questo è successo in altre parti della storia mondiale ed ora succede anche qua. Per questo, alle critiche e segnalazioni che facciate voi, o che facciamo noi, non si risponde con argomenti ma si dice, per esempio, che siamo volgari o che siamo invidiosi.

Non dubitiamo che ci sia gente che onestamente abbia pensato che il cambiamento promesso, oltre che a buon mercato (bisognava solo tracciare una croce su una scheda), puntasse ad un cambiamento reale o “vero”. Deve far arrabbiare, là in alto, che si ripresentino i nomi dei criminali di prima, anche se hanno cambiato colore.

Ma la vocazione di destra della nuova squadra di governo è innegabile. E la sua cerchia “intellettuale” e sociale rivendica senza imbarazzo la sua tendenza autoritaria. Si sta seguendo alla lettera il copione che abbiamo denunciato 13 anni fa, nel 2005. Chi è stato vile nella sconfitta, è vile nella vittoria. Dire che il prossimo governo è di sinistra o progressista, è una calunnia. Usiamo allora la similitudine dell’uovo del serpente. In un film che si intitola così, di Ingmar Bergman, c’è un dottore (interpretato dall’attore di Kung Fu, David Carradine) che spiega che quello che sta succedendo in Germania in quell’epoca – che poi diventerà fascista – è come l’uovo di un serpente che, se lo guardi in controluce si vede quello che c’è dentro, e allora si vedeva quello che sta succedendo adesso.

Voi sapete che dal 1° luglio tutto il lavoro del Partito Movimento di Rigenerazione Nazionale, di López Obrador e della sua squadra è per ingraziarsi la classe dominante ed il grande capitale. Non c’è nessun indizio (nessuno si può appellare ad un inganno), nessun indizio che dica che è un governo progressista, nessuno. I suoi principali progetti distruggono i territori dei popoli originari: il milione di ettari nella Lacandona, il Treno Maya, o il corridoio dell’Istmo che vogliono fare, tra gli altri. La sua franca empatia col governo di Donald Trump è già una confessione pubblica. La sua “luna di miele” con gli industriali ed i grandi capitali è rappresentata nei principali dicasteri del suo gabinetto e nei suoi piani per la “IV trasformazione”.

Crediamo che sia evidente che il beneplacito del Potere, del Denaro al “trionfo” di López Obrador, andasse oltre il riconoscimento. Tra il grande capitale c’è un vero entusiasmo per le opportunità di conquista che si presentano col programma di governo lopezobradorista.

Abbiamo alcuni dati concreti e molti pettegolezzi (che non si possono provare) su quanto è successo nel passato processo elettorale. Non li rendiamo noti perché da questi si potrebbe dedurre che ci sia stata una frode, e non è assolutamente nostra intenzione amareggiare l’euforia che invade i “30 milioni”.

Ma quello che nessuno vuole segnalare è che c’è stata una specie di “risveglio mediatico”, come è accaduto nelle precedenti elezioni: quelle di Calderón e di Peña Nieto. Cioè, non sono state “le istituzioni” a dire chi aveva vinto, ma i media. Mentre iniziava il Programma dei Risultati Preliminari Elettorali (PREP), Televisa e TvAzteca dicevano già il nome del vincitore; pochi minuti dopo, con meno dell’1% dei voti scrutinati, arrivava l’avallo di Meade, di Anaya e della Calderona. Passate alcune ore, il “camerata” Trump si congratulava ed all’alba del giorno 2, l’ormai nominabile Carlos Salinas de Gortari si univa alle congratulazioni. Senza conoscere i risultati ufficiali, inizia il baciamano che il PRI ha trasformato in patrimonio nazionale. E l’INE? Compie la funzione per la quale è stato creato: essere il Patiño della “democrazia elettorale”. Le “istituzioni” responsabili del processo si sono limitate a rincorrere la valanga mediatica.

L’intellighenzia progressista, che nel caso non fosse stato il suo leader avrebbe denunciato quanto accaduto come un “colpo di Stato mediatico”, ora sottoscrive senza imbarazzo alcuno il “sia come sia”: “abbiamo vinto, non importa come”. Il fatto è che tutto sembra indicare che il risultato è stato negoziato e concordato fuori dalle urne e dal calendario elettorale. Ma non importa, il grande elettore ha decretato: “Habemus Capataz, avanti con gli affari”.

Questo nuovo pensiero unico supplisce l’argomento della ragione con l’argomento quantitativo: “30 milioni non possono sbagliarsi”, come ha detto il padre non mi ricordo come si chiama, Solalinde? sì quello (scusate, è che non lo pronuncio mai bene ed il SubMoy mi corregge sempre) e che si sta dicendo in ogni momento: “perché vi opponete a 30 milioni? Voi siete solo 300 persone e per giunta sporche, brutte, cattive e volgari“. Bene, parlano di voi (le reti), io sono solo volgare.

Con questa nuova forma di fede (rispetto ad essa, noi insistiamo che manca il voto valido, che è il voto della realtà) si comincia ad imporre nell’immaginario collettivo la ragione della quantità sull’analisi e la ragione argomentata.

E si comincia a riscrivere la storia per trasformarla nella nuova Storia ufficiale, secondo la quale tutti i movimenti sociali e politici del passato in realtà miravano a portare alla presidenza López Obrador. Abbiamo letto che il movimento del ’68 non è stato altro che l’antecedente della “fine dei tempi”, 50 anni dopo. Abbiamo letto che si purificano Manuel Bartlett e criminali simili perché stanno dalla parte del vincitore. Abbiamo letto che Alfonso Romo è un industriale “onesto” il cui solo interesse è il bene del prossimo.

Abbiamo letto che chi ieri era del PRI, del PAN, del PRD, del Verde Ecologista, o bazzicava nel mondo dello spettacolo, ora è illustre leader della IV trasformazione. Ed abbiamo anche letto che la sollevazione zapatista del 1994 fu il preludio della sollevazione “civica” del 2018! Ed il leader ha già chiesto di svolgere elaborazioni teoriche sulla sua ascesa al Potere. Non manca molto perché gli storiografi allineati modifichino i libri di testo di storia.

Notiamo lo scatenarsi di una valanga, uno tsunami, di analisi frivole e volgari, di nuove religioni laiche, di profeti minori – molto minori – perché hanno la piattaforma per farlo. Ci saranno molti rospi per chi li vorrà inghiottire. E, dato che parliamo di neo religione, l’apparato burocratico si democratizzerà affinché tutti se la bevano.

Appariranno i nuovi “boy scout”, i piccoli esploratori pronti a fare il bene, anche se ben attenti a chi farlo.

I “rappresentanti dei cittadini” a promuovere la cittadinizzazione: quello che vogliono gli “autoctoni” (mi sembra ci chiamino così) è essere come chi li depreda. Essere “uguali”, sia pure nella fugace temporalità dell’urna, e “liberi” nel momento di firmare la concessione per la miniera-hotel-ferrovia, il contratto di “lavoro”, i pagamenti a rate, il “fermo sostegno al nostro presidente”, la richiesta di “aiuti governativi”.

Ci sarà un’auge prevedibile di agenzie governative ma, invece di risorse, forniranno interlocuzione. E questo vale più dei soldi. Perché il modello degli “sportelli” si decentralizzerà. Non si dovrà più andare in un edificio, informarsi e capire, dopo una lunga coda, che manca la copia rosa. Ora lo sportello verrà da te: “chieda, noi facciamo; come ricevuta riceverà una promessa”.

Se c’è chi non ha niente, è probabile che riceverà la speranza. I nuovi truffatori si incaricheranno di amministrare questa speranza, di dosare la sua portata e di trasformarla nella chimera che consola ma non risolve.

Si riciclerà l’argomento utilizzato in un certo settore della lotta sociale secondo cui non è possibile cambiare il sistema, ma quello che bisogna fare è amministrare o limare gli spigoli affinché non feriscano troppo, cioè, che possiamo trasformarli in buoni capisquadra, perfino arrivare a creare un capitalismo buono e che è possibile cambiare il sistema da dentro.

Si indovina ormai la figura attraverso il guscio: si chiede la resa della ragione e del pensiero critico; l’esaltazione del nazionalismo con base nell’autoritarismo “buono”; la persecuzione del diverso; la legittimità ottenuta con le grida; la neo religione laica; l’unanimità imposta; la resa della critica ed il nuovo lemma nazionale: “Proibito Pensare”. Insomma: l’egemonia e l’omogeneità che sostengono i fascismi che negano di riconoscersi come tali.

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Sono concetti che permettono di capire (ed agire), quelli che vengono presentati? Termini come “cittadinanza”, “gioventù”, “donne”, “progresso”, “sviluppo”, “modernità”, “democrazia elettorale” sono sinonimi di democrazia?

Il termine “cittadino” non vale come concetto per capire quello che succede: “Cittadino” è Carlos Slim come lo è il contadino depredato dal nuovo aeroporto di Città del Messico. Lo è Ricardo Salinas Pliego e chi vive per strada dopo il terremoto del settembre 2017. Lo è Alfonso Romo ed i membri della comunità tzeltal che saranno spogliati delle loro terre affinché passi un treno su cui i turisti si facciano i “selfie”.

Un altro: “gioventù”. “Giovani” sono le figlie di Peña Nieto e le lavoratrici e le studentesse assassinate.

Un altro: “donne”. “Donne” sono la Aramburuzavala, la Gonda, la Sánchez Cordero, la González Blanco Ortiz Mena, la Merkel e la May e lo sono le assassinate di Ciudad Juárez, le violentate in ogni angolo del mondo, le picchiate, sfruttate, perseguite, incarcerate, desaparecidas.

Tutti i concetti che eliminino la divisione o che non aiutino a capire la divisione di classe tra dominatori e dominati sono un inganno e permettono che convivano, in uno, gli uni e gli altri. Questa trasversalità – come la chiamano – tra il capitale ed il lavoro, non serve a niente, non spiega niente e porta alla convivenza perversa tra sfruttatore e sfruttato e, per un attimo, sembra che siano la stessa cosa benché non lo sia.

C’è inoltre questo tentativo da tornare al sistema di prima, il salto impossibile all’indietro allo “Stato Assistenziale”, allo “Stato Benefattore” di Keynes, al vecchio PRI (per questo qualcuno scherzava dicendo che la prima trasformazione è stata PNR; quindi la seconda in PRM; la terza in PRI, ed ora la quarta trasformazione è PRIMOR).

E si arriva alla vecchia discussione tra riforma e rivoluzione. I “dibattiti” tra i “radicali” che lottavano per la rivoluzione e gli “snob” che erano per un cambiamento graduale, per le riforme graduali fino ad arrivare al regno della felicità. Queste discussioni avvenivano nei caffè. Le agorà di adesso sono le reti sociali e si può seguire questo esercizio di autoerotismo tra gli “influencers” (o come si chiamino).

Noi pensiamo che non è neppure necessario discuterne, perché la riforma non è più possibile; quello che il capitalismo ha distrutto non è più recuperabile, non può esserci un capitalismo buono (pensiamo che non sia mai esistita questa possibilità), dobbiamo distruggerlo totalmente.

E parafrasando quanto detto dalle zapatiste nell’Incontro delle Donne che Lottano: non basta dare fuoco al sistema: bisogna accertarsi che si consumi totalmente e che ne rimangano solo le ceneri.

Di questo parleremo in un’altra occasione. Per adesso vogliamo solo segnalare che la controrivoluzione sociale è possibile. Non solo è possibile, ma è continuamente all’erta e vigile perché vogliono annichilire ogni lotta esterna a questo processo di addomesticamento in corso, che deve essere annientata, soprattutto con la violenza.

No solo con emarginazione, non solo con calunnie, ma anche con attacchi paramilitari, militari, di polizia.

Per tutto quello che sfidi queste nuove regole – che in realtà sono vecchie – non ci sarà amnistia, né perdono, né assoluzione, né abbracci, né foto; ci sarà la morte e la distruzione.

La lotta contro la corruzione (che non è altro che la lotta per una buona amministrazione del dominio) non solo non include la lotta per la libertà e la giustizia, ma le si contrappone, perché con l’alibi della lotta contro la corruzione si lotta per un apparato di Stato più efficiente nella quasi unica funzione che detiene lo Stato Nazionale: la repressione.

Il governo smetterà di essere il caposquadra ladro che si tiene qualche vitella e qualche torello che non consegna al finquero. Il nuovo caposquadra non ruberà, consegnerà al padrone l’intero profitto.

Si vogliono restituire allo Stato Nazionale, in questo caso il Messico, le sue funzioni reali. Cioè, quando si dice che c’è bisogno di sicurezza, è la sicurezza del capitale; è l’introduzione ed il perfezionamento di un nuovo stato di polizia: “farò bene le cose perché vigilerò su tutto“. La sicurezza reclamata per la “cittadinanza” è nei fatti il reimpianto di un sistema di polizia, un muro modernizzato e professionalizzato che sappia distinguere tra “i buoni” e “i cattivi”.

Si professionalizzerà la polizia della città del Capitale. Lì si diminuirà il tasso di criminalità e ci saranno poliziotti “bell@” che aiuteranno le/gli anzian@ ad attraversare la strada, cercheranno gli animali domestici smarriti e controlleranno che il traffico sia ordinato per chi importa: le automobili.

Fuori, in periferia, proseguirà il contubernio tra chi deve prevenire e perseguire il crimine e chi lo commette. Ma, in compenso, si fomenterà il turismo estremo: nella città del Capitale si organizzeranno “tour” e “safari” per conoscere quelle strane creature che vivono nell’ombra; i turisti potranno farsi un “selfie” col giovane fermato-picchiato-assassinato, col suo sangue che si confonde con i colori dei tatuaggi, che uccide il luccichio dei piercing e macchia il verde-viola-azzurro-rosso-arancio dei capelli. Chi era? A chi importa? In un “selfie” tutto quello che non sia “io” è pura scenografia, un aneddoto, un’emozione “forte” per brillare nel feis, su instagram, nelle chat, nelle autobiografie. E, dall’altoparlante del veicolo blindato, la gentile guida turistica avverte: “vi ricordiamo che il consumo di tacos, panini ed altri articoli sono a vostro rischio e pericolo; la società non è responsabile di indigestioni, gastriti ed infezioni intestinali. Per chi è sceso, qui abbiamo gel antibatterici”.

Il nuovo governo promette di recuperare il monopolio dell’uso della forza (che gli è stato sottratto dal “crimine organizzato”). Ma non più solo con poliziotti ed eserciti tradizionali. Anche con i “nuovi” vigilanti: le nuove “camicie brune” o ciliegia [il colore del movimento di Lopez Obrador – N.d.T.] nei quali si convertiranno gli affiliati alla nuova religione laica; la massa che sta attaccando i movimenti sociali che non si addomestichino. I riciclati “battaglioni rossi” (ora “ciliegia”, per l’IV trasformazione) che dovranno completare la “pulizia” degli sporch@, brutt@, cattivi@ e volgari, e tutto quello che resista all’ordine, al progresso e allo sviluppo.

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Dunque, continuiamo a scendere, a vedere come stanno resistendo (insieme ad altre organizzazioni, gruppi e collettivi) le nostre comunità – adesso qui con noi c’è parte della direzione collettiva dell’EZLN, 90 comandanti; sono di più ma sono quelli che ci hanno accompagnato questa volta per onorare la vostra visita (le reti) -.

Noi continuiamo a camminare su due piedi: la ribellione e la resistenza, il no ed il sì; il no al sistema ed il sì alla nostra autonomia, che vuol dire che dobbiamo costruire la nostra strada verso la vita. La nostra ha base in alcune delle radici delle comunità originarie (o indigene): il collettivo, l’appoggio mutuo e solidale, l’attaccamento alla terra, la preservazione e cura delle arti e delle scienze e la vigilanza costante contro l’accumulazione di ricchezza. Questo, e le scienze e le arti, sono la nostra guida. È il nostro “modo”, ma pensiamo che in altre storie ed identità sia differente. Per questo noi diciamo che lo zapatismo non si può esportare, neanche nel territorio del Chiapas, ma ogni calendario e geografia deve seguire la propria logica.

I risultati del nostro camminare sono sotto gli occhi di chi voglia guardare, analizzare e criticare. Anche se, certo, la nostra ribellione è tanto, ma tanto piccola che ci vorrebbe un microscopio o, meglio ancora, un periscopio invertito per scoprirla.

E non è neppure un esercizio molto incoraggiante: le nostre possibilità sono minime.

Non arriviamo nemmeno lontanamente a 30 milioni.

Forse siamo solo in 300.

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(Continua…)

#EZLN 300. Terza ed ultima parte: UNA SFIDA, UNA AUTONOMIA REALE, UNA RISPOSTA, DIVERSE PROPOSTE, E QUALCHE ANEDDOTO SUL NUMERO “300”. #SubcomandanteInsurgenteMoisés, #SupGaleano

E poi cosa viene?

Remare controcorrente. Niente di nuovo per noi, nosotroas, zapatiste, zapatisti.

Noi lo vogliamo ribadire – ci siamo consultati con le nostre comunità -: qualu nque caposquadra deve essere contrastato, chiunque; e non solo chi propone una buona amministrazione ed una corretta repressione – cioè, questa lotta alla corruzione ed il piano di sicurezza basato sull’impunità -; anche chi dietro sogni avanguardisti vuole imporre la sua egemonia ed omogeneizzarci.

Non cambieremo la nostra storia, il nostro dolore, la nostra rabbia, la nostra lotta, per il conformismo progressista ed il suo correre dietro al leader.

Forse qualcuno lo dimentica, ma noi non dimentichiamo che siamo zapatisti.

E riguardo alla nostra autonomia – con la faccenda che sì la si riconosce, o no non la si riconosce -, noi abbiamo fatto questo ragionamento: l’autonomia ufficiale e l’autonomia reale. Quella ufficiale è quella riconosciuta dalle leggi. La logica sarebbe questa: hai un’autonomia, ora la riconosco in una legge e quindi la tua autonomia dipende da questa legge e comincia a non mantenere più le sue forme, poi, quando ci sarà un cambio di governo, allora devi appoggiare il governo “buono” e votare per lui, promuovere il voto per lui, perché se arriva un altro governo abolirà la legge che ti protegge. Quindi diventiamo i peones dei partiti politici, come è successo con i movimenti sociali in tutto il mondo. Non importa più quello che si sta facendo nella realtà, quello che si sta difendendo, ma quello che la legge riconosce. La lotta per la libertà si trasforma così nella lotta per il riconoscimento legale della lotta stessa.

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Abbiamo parlato con i nostri capi e capi. O piuttosto con le comunità che ci danno il passo, la direzione e la destinazione. Con il loro sguardo guardiamo a ciò che sta arrivando.

Ci siamo consultati ed abbiamo detto: bene, se noi diciamo questo, che cosa succede?

Rimarremo da soli, ci diranno che siamo marginali, che stiamo rimanendo fuori dalla grande rivoluzione… dalla quarta trasformazione o dalla nuova religione (o come vogliano chiamarla) e dovremo remare un’altra volta controcorrente.

Ma non c’è niente nuovo, per noi, nel rimanere soli.

Allora ci siamo chiesti, bene, abbiamo paura di restare soli? Abbiamo paura di restare nelle nostre convinzioni, di continuare a lottare per esse? Abbiamo paura che chi era a favore, ci si metta contro? Abbiamo paura di non arrenderci, di non venderci, di non cedere? Ed alla fine abbiamo concluso: insomma, ci stiamo domandando se abbiamo paura di essere zapatisti.

Non abbiamo paura di essere zapatisti e continueremo ad esserlo.

È così che ci siamo fatti una domanda e ci siamo risposti.

Noi pensiamo che insieme a voi (le reti), con tutto contro, perché non avevate i media, né il consenso, né la moda, né i soldi – avete perfino dovuto metterci i soldi di tasca vostra – con tutto questo, attorno ad un collettivo di originari e di una donna piccoletta, di pelle scura, del colore della terra, abbiamo denunciato un sistema predatore ed abbiamo difeso la convinzione di una lotta.

Stiamo dunque cercando altre persone che non abbiano paura. Cosicché vi domandiamo (alle reti): avete paura?

Domandatevelo e se avete paura, cercheremo da un’altra parte.

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Noi crediamo di dover proseguire al fianco dei popoli originari.

Ancora qualcuna delle reti pensa che stiamo appoggiando i popoli originari. Col passare del tempo vedrete che è il contrario: sono loro che ci appoggiano con la loro esperienza e le loro forme organizzative, cioè, noi impariamo. Perché se c’è qualcuno esperto in tormente, sono proprio i popoli originari, ai quali è capitato di tutto ma sono lì, o meglio, siamo qui.

Ma pensiamo anche – e ve lo diciamo chiaro, compagn@ – che non basta, che dobbiamo incorporare nel nostro orizzonte, nelle nostre realtà con i loro dolori e le loro rabbie, cioè, dobbiamo proseguire verso la seguente tappa: la costruzione di un Consiglio che incorpori le lotte di tutti gli oppressi, gli eliminabili, le desaparecidas ed assassinate, i prigionieri politici, le donne aggredite, l’infanzia prostituita, i calendari e le geografie che tracciano la mappa impossibile per le leggi delle probabilità, i sondaggi e le votazioni: la mappa contemporanea delle ribellioni e delle resistenze in tutto il pianeta.

Se voi, insieme a noi, sfideremo le leggi delle probabilità che dicono che non c’è nessuna possibilità, se non molto piccola, che ce la faremo, se sfideremo i sondaggi, i milioni alle urne e la numeralia che il Potere contrappone per farci arrendere o per indebolirci, dobbiamo ingrandire il Consiglio.

Fino ad ora è solo un pensiero che esprimiamo qui, ma vogliamo costruire un Consiglio che non assorba né annulli tutte le differenze, ma le potenzi camminando con otroas, altri ed altre che abbiano lo stesso impegno.

Con lo stesso ragionamento, questi parametri non dovrebbero avere come limite la geografia imposta da frontiere e bandiere: dovrebbe mirare a diventare internazionale.

Quello che proponiamo è non solo che il Consiglio Indigeno di Governo non sia più solo indigeno, ma che non sia più solo nazionale.

Pertanto, noi, nosotroas, zapatiste, zapatisti, proponiamo che si porti a consultazione, oltre a tutte le proposte presentate in questo incontro, quanto segue:

1º. – Ribadire il nostro appoggio al Congresso Nazionale Indigeno ed al Consiglio Indigeno di Governo.

2º.- Creare e mantenere canali di comunicazione aperti e trasparenti con chi abbiamo conosciuto nel percorso del Consiglio Indigeno di Governo e della sua portavoce.

3º.- Iniziare o continuare l’analisi-valutazione della realtà in cui ci muoviamo, facendo e condividendo dette analisi e valutazioni, così come le proposte di azione coordinate che ne derivino.

4º.- Proponiamo lo sdoppiamento delle Reti di Appoggio al CIG per aprire, senza abbandonare l’appoggio agli originari, il cuore alle ribellioni e resistenze che emergono e perseverano dove ognuno si muove, in campagna e in città, senza che importino le frontiere.

5º.- Iniziare o continuare la lotta che miri ad ingrandire le domande ed il carattere del Consiglio Indigeno di Governo, in modo che vada oltre i popoli originari ed incorpori i lavoratori delle campagne e delle città, e le/gli eliminabili che hanno storia e lotta proprie, cioè, identità.

6º.- Iniziare o continuare l’analisi e la discussione che miri alla nascita di un Coordinamento o Federazione di Reti che eviti il comando centralizzato e verticale, e che non lesini l’appoggio solidale e la fratellanza tra chi la compone.

7º e ultimo.- Convocare una riunione internazionale di reti, o come la si voglia chiamare – noi proponiamo di chiamarci Rete di Resistenza e Ribellione… ed ognuno sceglierà il suo nome – a dicembre di questo anno, dopo avere conosciuto ed analizzato e valutato quello che deciderà e proporrà il Congresso Nazionale Indigeno ed il suo Consiglio Indigeno di Governo (nella sua riunione di ottobre di questo anno) ed anche per conoscere i risultati della consultazione alla quale si invita in questa riunione – dove siamo adesso -. Per questa, se credete, mettiamo a disposizione lo spazio in uno dei Caracol Zapatisti.

Il nostro appello dunque, non è solo agli originari, è a todoas, a tutte e tutti coloro che si ribellano e resistono in tutti gli angoli del mondo. A chi sfida gli schemi, le regole, le leggi, i precetti, i numeri e le percentuali.

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Aneddoto uno.- Nei primi giorni di gennaio del 1994, i servizi dell’Esercito Federale stimavano la forza dell’autodenominado ezetaelene in “solo” 300 trasgressori della legge.

Aneddoto due. – Nello stesso anno, e mentre Ernesto Zedillo Ponce de León ed Esteban Moctezuma Barragán preparavano il tradimento del febbraio 1995, il gruppo Nexos (prima dedito a cantare le lodi a Salinas de Gortari e poi a Zedillo) si disperava e, per voce di Héctor Aguilar Camín, esprimeva, parole più, parole meno: “Perché non li annientate?  Sono solo 300“.

Aneddoto tre. – Dalla relazione del tavolo di iscrizioni all’Incontro di Reti di Appoggio al CIG e la sua portavoce, realizzato nel caracol zapatista “Torbellino de Nuestras Palabras”, dal 3 al 5 agosto 2018: “presenti: 300“.

Aneddoto quattro: Entrate delle 300 imprese più potenti del pianeta: nessuna idea, ma può essere un 300, o qualsiasi numero seguito da un mucchio di zeri, e poi “milioni di dollari”.

Aneddoto cinque. – Quantità e percentuali “incoraggianti”:

.- la differenza quantitativa tra 300 e 30.113.483 (che sono i voti che, secondo l’INE, ha ottenuto il candidato AMLO) è: trenta milioni, centrotredicimila, cento ottantatre;

.- 300 è lo 0.00099623% di quegli oltre 30 milioni;

.- 300 è lo 0.00052993% dei voti rilasciati (56.611.027);

.- 300 è lo 0.00033583% del bacino elettorale (89.332.032);

.- 300 è lo 0.00022626% del totale della popolazione messicana (132.593.000, meno le 7 donne che, in media, vengono uccise quotidianamente – negli ultimi dieci anni in Messico, in media, una bambina, ragazza, adulta o donna di terza età assassinata ogni 4 ore -);

.- 300 è lo 0.00003012% della popolazione del Continente Americano (996.000.000 nel 2017);

.- la probabilità in percentuale di distruggere il sistema capitalista è dello 0.000003929141, che è il tot percento della popolazione mondiale (7.635.255.247 alle 19:54 ora nazionale del 20 agosto 2018) che rappresenta 300 (certo, se le presunte 300 persone non si vendono, non si arrendono e non cedono).

Oh, lo so, nemmeno la tartaruga che sconfigge Achille sarebbe di consolazione.

E un caracol?…

La Strega Scarlet?…

Il gatto-cane?…

Lasciate tutto questo a noi zapatiste e zapatisti, quello che ci svela non è la sfida che impone questa infima probabilità, ma come sarà il mondo che verrà; quello che sulle ceneri ancora fumanti del sistema, inizi ad emergere.

Quali saranno le sue forme?

Si parlerà a colori?

Quale sarà la sua colonna sonora? (Eh? Il “moño colorado”? Nemmeno per sogno).

Quale sarà la formazione della squadra, finalmente completata, di Difesa Zapatista? Potrà allineare l’orsacchiotto di peluche di Speranza Zapatista, che fa coppia col Pedrito? Permetteranno al Pablito di portare il suo cappello vaquero e ad Amado Zapatista il suo casco di stame? Perché quel maledetto arbitro non segna il fuori gioco del Gatto-cane?

Ma, soprattutto, e questo è fondamentale, come si ballerà in quel mondo?

Per questo, quando a noi, zapatiste, zapatisti, chiedono “e poi cosa viene?”… dunque, come dirvelo?… non rispondiamo subito, ma ci mettiamo un po’ a rispondere.

Perché, vedete, ballare un mondo dà meno problemi che immaginarselo.

Aneddoto sei.- Ah, pensavate che “300” fosse riferito al film dello stesso titolo ed alla battaglia delle Termopili e già vi preparavate vestiti come Leonida o come Gorgo (ognuno come gli pare) a gridare “Questa è Sparta!” mentre decima le truppe degli “Immortali” del re persiano Serse? Non ve l’ho detto? Siamo zapatist@, e come di consueto, vediamo un altro film. O peggio ancora, guardiamo ed analizziamo la realtà. È così.

-*-

È tutto…per ora.

Dalle montagne del Sudest Messicano.

Subcomandante Insurgente Moisés.                     Subcomandante Insurgente Galeano.

Messico, agosto 2018.

Traduzione “Maribel” – Bergamo