Ite, Missa Est. Uno scorcio di domenica zapatista, senza lo stadio.

Domenica mattina al pueblo 8 de marzo, dove sono ospitato assieme a Silvia, la mia ragazza, per il turno di gennaio dell’escuelita. In viaggio però si sa che è facile perdere la cognizione del tempo, e difatti mi accorgo che è domenica solamente quando il capofamiglia viene a salutarmi dopo colazione dicendo che va a messa. Anche Yoni, il mio guardiano, dice che una domenica qualsiasi sarebbe andato in chiesa; oggi però rinuncia perché per me è giornata scolastica, e deve aiutarmi nello studio dell’autonomia zapatista.IMG_4916

Se a noi la prospettiva di coniugare fede religiosa e rebeldia politica pare inusuale, in Chiapas invece non c’è nulla di strano in ciò: molti zapatisti sono religiosi. Qui nel pueblo si pratica il culto cattolico, seppure con un certo numero di varianti sostanziali rispetto a quello italiano; altrove è l’evangelismo ad andare per la maggiore. Pur essendo io ateo bellicoso e convinto, la prospettiva di una messa indigena sollecita troppo il mio spirito da antropologo, perciò chiedo a Yoni di accompagnarmi lo stesso per assistere al rito. Accetta di buon grado, perciò ci avviamo alla chiesetta del paese lungo la strada polverosa, dove incontro Silvia e la sua guardiana, Nidia, che ci accompagnano; oltre a noi c’è anche un altro alunno dell’escuelita, mentre gli altri si sono svegliati senza sentirsi, a differenza di noi, un po’ come Claude Levi-Strauss.

Sono le 8 del mattino, e fuori dai muri si attardano un po’ di compas a chiacchierare, mentre altri sono già seduti sulle spoglie panche all’interno. Dopo una certa attesa – non si inizia mai nulla ad orari ben definiti in Chiapas, si inizia quando tutti sono pronti – entro con l’intenzione di non partecipare alla messa, e difatti non mi segno. Va bene l’ospitalità ma il mio sano orgoglio anticlericale non viene certo meno. Gli uomini si posizionano nella “navata” sinistra, le donne a destra. Sui muri sono appese foglie di palma, dietro l’altare ci sono un crocefisso polveroso in una teca, uno scarno tabernacolo e una foto del defunto vescovo Samuel Ruiz, cui le comunità di insorti sono affezionate, essendo stato mediatore tra zapatisti e governo. Per l’aria c’è ovviamente un forte odore di aspro incenso. Gli onnipresenti bambini iniziano ben presto a razzolare per la chiesetta per vincere la noia, i più piccoli di tanto in tanto strillano in braccio alle madri.

Subito mi accorgo che il rito è decisamente differente da quello italiano: non c’è nessun prete dietro l’altare, e sono gli stessi compas a officiare. Due compaňeras leggono un brano su Noè, prima in spagnolo e poi in tojolabal, per dare la possibilità a tutti di capire (tranne che a me, dato che mastico poco perfino la lingua dei conquistadores). Dopo le letture cala il silenzio, durante il quale tutti rimuginano un poco tra di loro, per potere poi dare la loro interpretazione. Si, perché lo spirito comunitario e assembleare con cui gli indigeni vivono quotidianamente non viene scalfito nemmeno a messa: qui non c’è alcun vecchio grassone ammantato di paramenti sacri e imbolsito di offerte che dall’alto del suo scranno vomita interpretazioni squallide e buoniste ad una massa di ipocriti che frattanto ciarlano disinteressati del più e del meno, come settimanalmente accade in tutte le chiese d’Italia. Alla messa zapatista tutti possono, se lo desiderano, alzarsi e dire la propria sul passo letto: un esempio di religiosità “dal basso”, priva di interpretazioni forzate o dirigistiche.

Tra i compas va per la maggiore, a quel che mi pare di capire, l’idea che gli zapatisti stiano lavorando proprio come Noè, cioè restando inascoltati da molti dei loro vicini, venendo presi in giro e scherniti da altri. Come nel mito biblico però, sono coscienti di agire nella maniera corretta, costruendo, invece che un’arca, una società nuova in modo autonomo, ascoltando la voce della loro coscienza e pensando al bene comune, lontano dal malgoverno dello stato e dei partiti politici. Offrono anche a noi alunni la possibilità di parlare, ma vista la mia scarsa conoscenza dello spagnolo declino gentilmente. Mi trattengo anche dal domandare – per ora – come mai siano ancora tanto affezionati alla religione dei loro conquistatori d’oltreoceano.

Tuttavia, finito il rito non mi pento affatto di avere assistito: esperienze come questa fanno riflettere sulla possibilità che la religione ha in certi casi e in certi paesi (e in un passato molto lontano ebbe anche da noi) di essere uno strumento di ribellione, se non viene percepita come mezzo di dominio e controllo sulle masse. Anche Yoni è contento; grazie alla mia curiosità non si è nemmeno perso la sua consueta messa domenicale.

 

Di Valerio Morosi