ARTICOLO SULLA PROPOSTA DI EZLN E CNI: Sorprese e attese: gli zapatisti e noi

di Daniele Di Stefano – Associazione Ya Basta! Milano tratto da https://www.facebook.com/notes/daniele-di-stefano/sorprese-e-attese-gli-zapatisti-e-noi

La recente decisione dell’EZLN e del CNI, comunicata al termine del Quinto Congresso Nazionale Indigeno, è stata una sorpresa: si avvia una consultazione tra i popoli, nazioni e tribù per approvare l’ipotesi di una candidata indigena alle elezioni presidenziali del 2018. Una sorpresa, ma non rispetto alla lunga storia degli zapatisti che hanno visto sfilare, dall’anno dell’insurrezione, già cinque presidenti che non hanno potuto cancellarne la lotta né la sperimentazione dell’autonomia indigena. Vale la pena di ritornare col pensiero alle precedenti fasi elettorali e ricordare come si è modificata di volta in volta l’azione zapatista, sempre disturbante rispetto al sano alternarsi dei criminali in doppiopetto, espressione delle classi dirigenti messicane. Perdonate le approssimazioni.

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Nel 1994, anno dell’insurrezione, l’EZLN resistette a Salinas de Gortari e si rivolse al neoeletto Zedillo Ponce de León con queste parole: “benvenuto nell’incubo”. A testimonianza della guerra sporca di quel periodo, la lettera del Subcomandante Insurgente Marcos terminava così: finché non ci sarà risposta alle domande di democrazia, libertà e giustizia, in queste terre ci sarà guerra.

Nel 2000, la stagione di lotta promossa dall’EZLN propiziò la caduta dell’apparentemente imperituro regime del Partito Rivoluzionario Istituzionale. Il neopresidente di destra, Fox Quesada, dovette tollerare il lungo snodarsi della Marcha del Color de la Tierra: nel marzo 2001 gli zapatisti e la società civile invasero lo zócalo di Città del Messico. Il 28 marzo la Comandante Esther pronunciò uno storico discorso al parlamento messicano, dimostrando disponibilità al dialogo e alla distensione ma chiedendo il rilascio di tutti i prigionieri politici zapatisti e il riconoscimento costituzionale per diritti e cultura indigeni.

Nel 2006, tre anni dopo la nascita del sistema civile che governa l’autonomia zapatista (Caracoles e Giunte di Buon Governo), si ebbe l’elezione fraudolenta di Calderón Hinojosa, e il culmine dell’Altra Campagna lanciata dall’EZLN. Il 2005 fu l’anno della Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, che ancora oggi fa da riferimento per tutti noi aderenti alla Sexta. L’Altra Campagna si caratterizzò dal basso a sinistra, contro il capitalismo e senza alcuna partecipazione ai giochi elettorali della classe politica. La coalizione di una costellazione di gruppi eterogenei di varia tradizione teorica e pratica, esperimento di grande importanza, venne ridotta dalla sinistra partitica guidata da López Obrador a un’azione di disturbo verso il suo incedere vittorioso alle elezioni, un tentativo di farle perdere voti in favore della destra. Poco importava che già mesi prima l’EZLN avesse chiaramente analizzato il broglio in preparazione, su cui poi il presidente “legittimo” e gabbato del PRD piagnucolò a lungo. López Obrador ha già riproposto nuovamente questa consueta accusa dei partiti perdenti (anche della sinistra nostrana che non andiamo a votare). L’esperimento dell’Altra Campagna, peraltro, non resse il peso della propria eterogeneità, e si esaurì. Quel che ne emerse è quell’area mondiale di zapatisti e filozapatisti e sottozapatisti e zapatisti del terzo tipo che noi chiamiamo affettuosamente La Sexta.

Nel 2012 tornò al potere federale il PRI, ma l’elezione di Peña Nieto venne accolta dall’EZLN con un fragoroso silenzio, peraltro reciproco rispetto alle questioni in sospeso circa i diritti indigeni. La fase successiva è quella che ci conduce agli ultimi anni, in cui ci siamo per così dire abituati a una determinata postura degli zapatisti rispetto alle questioni elettorali: qualsiasi gioco di potere non ci riguarda, qualsiasi partito istituzionale è rappresentante del sistema di potere e qualsiasi governo, pur con notevoli differenze, resta nel solco del regime capitalistico: anche i bolivariani del cono sud, in fin dei conti.

Da qui, da questa visione che sembra degli ultimi anni e che è di sempre, deriva la sorpresa per l’annunciato cambio di strategia: ma come, tante chiacchiere contro gli aspiranti eletti di tutte le risme, e ora partecipano alle elezioni? Ma dal breve riepilogo storico si vede come non esista una regola fissa del comportamento zapatista dinanzi al rito elettorale: esistono una miriade di fatti e considerazioni, di eventi luttuosi e di lotte popolari che non possiamo citare qui, perché servirebbe un trattato, ma che hanno influito su tutti i percorsi intrapresi di volta in volta. Oltreché, beninteso, l’esperienza che via via ne scaturiva e il pensiero critico che ne derivava. Di tutto ciò dobbiamo avere rispetto e non partire per la tangente con giudizi, esultanze o lamentazioni.

Se è con questo atteggiamento che guardiamo alla recente decisione circa la candidatura, possiamo intanto osservare che la proposta è frutto di una progressiva indigenizzazione del movimento zapatista, che sta puntando molto sui fratelli indigeni dei vari stati e sul contesto nazionale. Poiché non vale qui un discorso di puro e semplice incasellamento “per classi”, non è che il nemico sia il non-indigeno, il meticcio, il creolo. Il nemico è il capitalismo, specialmente nelle sue rapaci scorribande di depredazione dei territori: dighe, fiumi prosciugati, fracking, estrattivismo, energie pulite ed ecoturismo come pretesti per il business, eccetera. Gli indigeni sono un sassolino nella scarpa per l’anfibio del capitalismo dei disastri, ma un sassolino che non riesce a togliersi. Gli indigeni, in Messico e ovunque, sono i nostri paladini (“nostri” di tutti noi abitanti del mondo) se nel lungo periodo vogliamo salvare non tanto il pianeta, quanto la nostra possibilità di viverci. Ma gli indigeni messicani non agiscono come un blocco monolitico: vengono anche intruppati nei gruppi paramilitari, usati come manovalanza dai partiti e dai cacicchi, corrotti con un piatto di minestra e ingannati con blandizie di varia natura. Contro tutto ciò, e senza mai perdere il senso di fratellanza, gli indigeni consapevoli hanno lottato in questi decenni, lasciando sul terreno morti, feriti e prigionieri politici. Anche di questo dobbiamo avere enorme rispetto.

Pensando all’Altra Campagna del 2005, la proposta attuale ha un grosso vantaggio: la maggiore omogeneità (meglio: uguaglianza nella diversità) di chi la promuove. Indigeni sì, e pertanto anche gli ultimi degli ultimi nella scala sociale: poveri, proletari e sottoproletari, contadini… li si chiami come si vuole, ma in termini di classe non c’è quasi traccia di apporti da parte della multiforme borghesia. C’è però anche uno svantaggio: è più difficilmente comprensibile, almeno in teoria, per chi sostiene da anni la lotta zapatista. Dal punto di vista internazionalista, pur essendo concordi sull’accento dato al tema dell’organizzazione non sono infatti i partiti comunisti di varia estrazione ad aver guardato con maggiore comprensione all’insegnamento degli zapatisti, bensì i gruppi anarchici e di comunismo libertario, i movimenti per i diritti umani e i comitati contro le grandi opere, che spesso hanno una posizione ben precisa rispetto alle tornate elettorali e al meccanismo del voto. Questa decisione può mettere in difficoltà tanti, non rispetto alla loro fiducia nell’EZLN, bensì soprattutto per quelle che sono le ricadute teorico-pratiche in altri territori. In Europa, e in Italia specialmente, abbiamo già vissuto numerose stagioni in cui parti di movimento tentavano la via elettorale, anche se le argomentazioni presentavano sempre la scelta come fondata in una prospettiva di lotta. La constatazione dei passati fallimenti, che puzzano ormai di coazione a ripetere, non può che farci guardare con ironia a ogni riproposizione. Ebbene, allora con gli zapatisti come la mettiamo? Perché loro, invece, alle elezioni… da qui l’imbarazzo.

No, cari, no. Abbandoniamo i facili parallelismi. Qui non c’entra nulla Tsipras, non c’entra nulla Podemos, non c’entrano né Bertinotti né Vendola né i grillini né i senza volto né Democrazia Proletaria né i sindaci (presunti) No Tav eccetera. A livello simbolico, una candidata indigena proposta da indigeni da noi corrisponderebbe all’incirca a una candidata africana richiedente asilo e proposta in autonomia dai rifugiati nei centri d’accoglienza: una cosa mai vista. Non ci sono confronti possibili. Diciamolo subito e chiaro, che l’ipotesi prospettata dagli zapatisti e dagli indigeni messicani non è partitica, non è elettoralista, non è compromissoria: noi non vogliamo esserlo, loro ancora meno. Da nessuna parte è dato leggere che gli zapatisti ambiscano a governare il paese e ad addomesticare i conflitti, né che vogliano dare il via alla penetrazione in scranni poltrone e poltroncine. Le elezioni presidenziali, diverse dalle legislative, neppure lo consentirebbero. Quel che consentono, è un’amplificazione “spettacolare” sia delle fregnacce dei candidati che del controcanto dei popoli in lotta, la possibilità cioè di mettere il dito nella piaga delle impresentabili condizioni dei narcostati, a riflettori accesi, proprio sotto il grugno di chi predica progresso e investimenti. Al momento è questo, e solo questo, che si può dare per certo rispetto alla scelta annunciata da chi dice da anni “non vendersi, non arrendersi e non claudicare”. Così come è evidente che la candidatura non può servire a “contarsi”, com’è costume di certi micropartiti: sia perché molti che simpatizzano per te non andrebbero comunque a votarti o verrebbero sedotti dalle sirene del dannoso “voto utile”, sia perché la consultazione preliminare basta e avanza per far sentire il peso popolare della tua opzione.

Bisogna avere cautela quando si parla di zapatisti. L’effetto sorpresa, la spiegazione successiva o il cambiamento di passo sono un tratto distintivo che si presta facilmente a fraintendimenti. Noi stessi, che ci presumiamo scaltri in materia, a volte siamo stati tratti in errore: ad esempio abbiamo pianto il defunto Marcos e ci siamo meritati la derisione per esserci innamorati di un “ologramma”. Ma dobbiamo anche essere spietatamente onesti: l’imprevedibilità zapatista sta crescendo in maniera esponenziale. Tante sono le strade e i cantieri aperti negli ultimi anni: escuelita, seminari di pensiero critico contro l’Idra capitalista, arte e scienza come risposte dell’umanità alla tormenta capitalistica, con tanto di festival internazionale pieno di colpi di scena organizzativi… per noi che siamo piuttosto macchinosi, ma che pure teniamo ad ascoltare sempre chi ci ispira da due decenni, ce n’è stato d’avanzo per uscirne scombussolati circa la “linea” da seguire… e ora ecco le elezioni presidenziali. Che smarrimento! Il fatto è, poveri noi, che non bisogna essere fedeli alla linea, perché la linea non c’è: è questo il bello e il difficile di essere zapatisti anche quando la moda è finita. Bisogna imparare ad avere pazienza, tenacia e occhi attenti, ed evitare di fabbricare piedistalli su cui collocare idoli da frantumare. Bisogna imparare che il ritmo del ragionamento e delle decisioni collettive non ha il passo delle elucubrazioni dei singoli pensatori. Quindi aspettiamo, discutiamo, vediamo a cosa prelude la mossa annunciata, verifichiamo che riscontro avrà tra i popoli indigeni e la società civile messicana, ma in ogni caso teniamo alta la bandiera del pensiero critico e dell’EZLN, con tutta la dignità che compete loro.

Al massimo, per concludere il ragionamento o sproloquio o flusso di coscienza, ciascuno di noi potrebbe chiedersi: se io fossi un indigeno o un’indigena o un’indigenoa e mi consultassero circa la candidatura del 2018, voterei a favore o contro la proposta? Ecco, per ragioni di principio molti di noi voterebbero no… ma siamo forse indigeni? Possiamo realmente calarci nei panni di chi resiste da cinque secoli e vede in faccia tutti i giorni la morte vestita di dollari? NO. Perciò attendiamo con rispetto, lasciamoci sorprendere e rimaniamo fiduciosamente zapatisti: le fasi cambiano, le lotte restano.

Daniele Di Stefano – Associazione Ya Basta! Milano