Un estratto di 20ZLN su Genova 2001 e Zapatismo, il racconto di Lodo – Lo Stato Sociale

Condividiamo con un giorno di ritardo il racconto che Lodo, voce e chitarrista de Lo Stato Sociale, ha scritto per il nostro libro e progetto 20zln. Parla di Zapatismo e di Genova 2001. Un testo molto bello, che pensiamo sia bello che tutt@ possano leggere.

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Vorrei sapere le cose che non so… Imparare e viaggiare oltre il tempo, le culture e la mia pigrizia atavica. Capire. Capire che significa un esercito che agisce per liberare i popoli, non per opprimerli, che io una cosa così non l’ho mai vista. Capire cosa vuol dire credere che i diritti inalienabili dell’uomo siano un tetto e una scuola, non proprietà privata e libera concorrenza. Vorrei avere il disincanto delle contraddizioni e il passo zigzagante di chi conosce le facce, le strade, i sorrisi accennati.
Ma la verità è che io non so quasi nulla. Sono qui perché me l’hanno raccontato, fin troppe volte. Mio nonno partigiano, mia nonna comunista, mio padre marxista e mia madre settantasettina… Mi hanno raccontato la morale ma non il finale della favola. Sono cresciuto pensando che se non cerchi di cambiare il mondo il mondo cambia te, e diventi quel che non sei. Più piccolo, più misero, più miope.
Ma questa cosa per tanti anni è stata una sorta di ritornello aperto, una filastrocca per ricordare i giorni del mese, un bel ricordo delle vacanze.
Poi un giorno ho pianto. Per rabbia, per profondissima, incredula e sfrenata rabbia. Era il 20 luglio 2001.
Avevo quindici anni e ricordo il mio sguardo sfocato del pianto allo specchio. Ricordo una rabbia nuova, dei miei occhi nei miei, che si guardavano come sott’acqua: cambiare il mondo non sarebbe stata una favola.
Di fronte alle telecamere di tutto il mondo avevano ammazzato un ragazzo che avrei potuto essere io, otto anni dopo. Gli avevano sparato da quattro metri, lo avevano investito due volte, lo avevano circondato rallentando di mezz’ora l’arrivo dei soccorsi, gli avevano tolto il passamontagna e gli avevano fracassato il cranio con un sasso. Quel giorno ha cambiato la vita non solo a me. Il 19 luglio 2013, scrivendo queste righe, ho capito perché. Ho capito così mi dicevo in quello sguardo di rabbia, come sott’acqua. Ecco, vorrei sapere cose che non so. Ma io non so quasi nulla, e questo è tutto ciò che ho da dire.
Genova per me.
Oggi non è un giorno come gli altri, e così non sarà domani. Scrivo perché è una febbre che non esaurisce ma sempre fa sudare, e ogni anno sono questi i giorni più caldi. Scrivo e vi prego col cuore di risparmiarmi le insopportabili considerazioni sapute di chi non ha capito, le inascoltabili ragioni dietrologhe di chi non ha studiato, le nenie giustizialiste e ignoranti di chi “mi hanno detto così”.
Abbiate, nel caso, la clemenza che si riserva a un pagliaccio, che è quel che sono, o a un malato di cuore, che è quel che divento ogni volta che si avvicina questo 20 luglio.
Perché oggi di dodici anni fa ho perso una verginità che sanguina ancora a guardarla. Rotto l’imene del si può fare tutto di tutto dei miei quindici anni, all’improvviso mi ha soffocato l’abbraccio delle scelte, e quindi della mortalità. Che si può morire e forse non me l’avevano spiegato bene. Che il potere sopravvive uccidendo e forse mi sembrava una realtà relegata ai fumetti. Che se non scegli una strada, una strada sceglie te e molto spesso non fa differenza. Che non scegliere da che parte stare è come morire senza neanche che nessuno se ne accorga. E ci sono quelli di prima dell’83, che tutti dicono c’ero e se chiedi prima tremano poi accendono un falò come un nonno con un passato da prigioniero in Albania, e ci sono quelli dopo l’84 che sanno tutti dove erano. C’era Nicola che era partito e l’ha saputo al telefono, i regaz in radio a tenere aperta la diretta con l’inferno senza senso, mia mamma con il suo scudo di ostentata consapevolezza sotto la cenere di ferite miste ad apprensioni, l’incredulità tenera e montanara di nonna, roda con la rabbia tra i denti e il punk nelle orecchie, spino a dare lungocampi e letture di spigolo a quel che non si spiega. E io che non ho più passato i quindici anni di allora.
Eppoi il senso di una generazione all’improvviso lobotomizzata e di quella dopo, la mia, graffiata di consapevolezza e ora capace di ballare sulle punte nella giungla dei contratti fantasmi e dei collocamenti, dei massacri davanti agli ippodro- mi e dentro le carceri, nel futuro che non esiste lisciato da una retorica ridicola di governi sempre uguali, o dal loro tentativo di ubriacarci di colpe ancestrali nere, meridionali, asiatiche, omosessuali o facinorose.
E vadano affanculo i carnevali del ’68 e del ’77, se servono a chi ci ha messo al mondo per non capire che la nostra è una storia diversa. Lontana dall’euforia liberty della loro rivoluzione oggi no, domani forse, dopodomani sicuramente, lontana dalle loro prospettive, dal loro apparato di valori costituenti e antifascisti assimilato orizzontalmente, dalla prontezza e freddezza dei loro terribili servizi segreti, dal loro discutibile ma presente partito comunista più grande d’Europa.
Noi siamo quelli senza catarsi. Che la tragedia ce la portiamo come un portachiavi, e senza non si trova casa. Siamo quelli della celere che inneggia a Pinochet e a Mussolini, che non ammazza per strategia ma tortura per una forma di didattica perversa, che viene mandata in piazza fatta di cocaina e stronzate, che resta a guardare venti scemi che spaccano tutto senza muovere un dito e ti viene a prendere la vita di notte in quattro contro uno, che si eccita con il sangue e flirta al telefono quando am- mazza qualcuno, che ostracizza le persone oneste e promuove a dirigere la prima azienda produttrice di armi il mandante di un massacro, che non vuole farsi riconoscere con un numero, vestendo le guardie da ladri. Di questori che il giorno dopo una maratona fanno riparcheggiare le macchine sotto casa in vista di una manifestazione da 80.000 persone e guardano le macchine bruciare. Di ministri che danno l’ordine di sparare ma solo ai terroristi, di prove di forza chieste costantemente e trasversalmente da chi ha governato in questi anni.
Non che sia una posizione invidiabile, ma noi siamo più consapevoli delle mamme e dei papà, pure se sembra contro natura. Che loro hanno avuto la tragedia, la catarsi e gli eroi veri che hanno fatto cose immense come Peppino Impastato, come Falcone e Borsellino poi, come Zamboni molto prima. Noi però, che nasciamo in ritardo sulla tragedia e con la sgradevole sensazione di conoscere sempre il finale, vibriamo per ragazzi come Carlo che non hanno fatto nulla di meritevole se non essere quello che avremmo potuto essere tutti noi: quello capitato su quel sasso oltre il quale nasce la consapevolezza del mondo violento e vergognoso che ci è stato consegnato. E con questo sasso l’hanno ucciso, per davvero.
E poi le chiacchiere eterne di chi non sa ma gliel’hanno detto, e non ha capito e forse pagherà il ritardo; e l’incredulo sguardo dei tuoi amici stranieri che invece da fuori hanno visto e ti chiedono come sia stato possibile. Con la stessa pa- rola pronunciata da quella ragazza olandese ritrovata sotto un tavolo dai giornalisti in mezzo ai pezzi di cervella e al sangue che tappezzavano le pareti della Diaz. “Why?”
Sembra incredibile, ma un disegno c’è. Un teatro dell’orrore in cui alcune marionette sono più imbecilli e drogate che nei settanta. Che refertano thermos e matite, che spostano molotov da archivi diversi facendosi scoprire, che fanno piovere lacri- mogeni e fanno comparire in conferenza stampa pericolose acque da mezzo litro in plastica tappate e con un fazzoletto di carta rossa attorno, che più che bottiglie incendiarie sembrano miniature di partigiani.
Oggi è stata la nostra prima volta, il nostro primo verso, il nostro primo suono, la nostra prima battuta e prima canzone, il nostro primo e sfortunato amore.
Se ho fatto qualcosa di cattivo nella vita la colpa è mia, se ho fatto qualcosa di buono il merito è di chi per caso era al posto mio, quel giorno.

Buon 20 luglio a tutti.