Brano apparso originariamente su Atlante guerre
In un mondo che cambia la rivoluzione dell’EZLN è elemento continuativo seppur in trasformazione che resta saldo nell’elaborazione di un pensiero, e di una pratica, anti-capitalista composta da una decisiva visione post coloniale e anti patriarcale. Tanti no che si materializzano in un grande “si”- l’autonomia indigena – un idea di mondo diverso possibile. L’EZLN ha dovuto affrontare in questi 40 anni di vita, e 30 di insurrezione, tanti cambiamenti. Quelli interni, il primo e più importante è aver modificato la traiettoria rivoluzionaria marxista-leninista, con cui il gruppo fondatore entrò nella Selva Lacandona il 17 novembre del 1983, plasmandola e mescolandola con la cosmogonia indigena maya. Poi ci sono state le morti in guerra, le morti per età, le morti per attacchi paramilitari, i cambi di ruolo, le nuove generazioni, e gli scontri tra correnti. Quelli esterni, i cambi di governo – ben sei – poi le diverse forme di contro insurgencia da quella militare del 1994 a quella che somma crimine organizzato, guerra di bassa intensità, paramilitarizzazione, e politiche sociali dell’oggi. In questo scenario è importante ricordare che se tra il 1983 ed il 1994 in Abya Yala esistevano diverse guerriglie e pulsioni rivoluzionarie oggi l’EZLN è di fatto restato solo. Certo l’idea di autonomia indigena, non sospinta da una lotta armata, è stata ripresa e applica in diversa modalità in mezzo Messico con il caso, forse, più interessante di Cheran e del Michoacan. La rivoluzione zapatista si basa tutt’ora sull’essere sia civica che militare, dove l’ala militare resta in tutto e per tutto organizzata come ogni esercito ovvero in maniera verticale. Allo stesso tempo l’esercito è il luogo di formazione politica, è lo stesso esercito che ha deciso di mettere in discussione l’uso della violenza già nella sua fase di clandestinità. Così dal 12 gennaio 1994 è elemento di tutela delle comunità però di fatto inattivo dal punto di vista militare. Gli scontri armati dopo l’apertura del dialogo di pace sono pochissimi e di fronte alle provocazioni subite in questi 30 anni la risposta non è praticamente mai stata quella armata. Una rivoluzione complessa, una rivolta che è iniziata nel segno del fuoco e della morte e si è presto spostata nel campo della parola. Proprio così un movimento armato e militare è diventato simbolo dei movimenti non violenti così come dei movimenti anti-globalizzazione di mezzo mondo. Un movimento che ha rilanciato l’insorgenza indigena che nel continente americano si articolava in resistenze locali spesso non organizzate e quasi sempre invisibilizzate ma allo stesso tempo erano parti di un fervente e crescente dibattito capace di alimentare un nuovo corso e una rivisitazione del pensiero post-coloniale e de-coloniale. La rivoluzione Zapatista ha dato certamente, anche nella sua capacità di accompagnare l’azione politica con la produzione teorica, un notevole stimolo a tali pensieri critici per quanto formalmente il mondo accademico non lo riconosca. Anomalie che pennellano la particolarità unica dell’esperienza neo-zapatista, dove la parola, la radicalità dei fatti, l’ostinazione della creazione di un mondo capace di contenere molti mondi ha fatto si che odio, rancore, e violenza lasciassero il passo alla costruzione di alternative, ponti di pace, e proposte di dialogo…..”senza perdere la tenerezza” e senza fare passi indietro dalla propria idea. La “geometrica potenza” avanzata dall’EZLN si è esplicitata i 1 gennaio 2024, nel discorso del Subcomandante Moises, capo militare e portavoce dell’organizzazione dal 2013. Parole distanti dalla poetica targata Marcos, una visione pragmatica della realtà, un discorso in Tzeltal prima che in castigliano, un discorso breve e netto più rivolto all’organizzazione e al mondo indigeno che alle internazionaliste e internazionalisti che hanno partecipato all’atto di festeggiamento dei primi 30 anni di rivolta. In tante e tanti si sarebbero aspettati altro, ma l’EZLN è da sempre ostile alla logica dell’evento per l’evento. 10 anni fa per il ventennale del levantamiento non ci fu nessuna festa centrale ma tra il secondo e terzo turno dell’”escuelita zapatista” nei cinque caracoles (oggi 12) ci furono iniziative locali, aperte, senza orazioni “ufficiali”. L’avvicendamento da Marcos/Galeano a Moises non è solo simbolico ma fattivo: dalla forza della parola e della poesia alla praticità e nettezza indigena. Marcos rappresenta tutt’ora l’ala avanguardista delle Fuerzas di Liberacion Nacional che dopo la grande repressione degli anni ’70 si sono riorganizzate e hanno lanciato l’epopea neo-zapatista. Moises è volto indigeno che si è unito all’organizzazione ben dopo quel giorno di novembre del 1983, è così il simbolo di una transizione che non si allontana dal mandato “originario” ma organizza una nuova scuola di governo della struttura e quindi del processo rivoluzionario. Devo ammettere che leggendo i diversi comunicati con cui è stato preparato il 30ennale ero pronto alla nomina della prima donna subcomandante dell’EZLN, illusione forse costruita a partire dall’apparente “declassamento” a Capitano (ruolo che aveva già nel 1984) di Marcos. Una mossa che mi sembrava nel solco della storia zapatista, primo esercito della storia con oltre il 30% di donne, e della sua attenzione alla questione di genere che prende forma a partire dalla “Legge rivoluzionaria delle donne”. Sarebbe stata anche una “risposta” alla politica istituzionale messicana che rivendica con forza che alle prossime elezioni del 2 giugno le sfidanti alla presidenza saranno due donne. Spesso l’EZLN ha deciso di “giocare” dentro e attorno al campo delle elezioni presidenziali: nel 1994 candidando Amado Avendaño a governatore ribelle del Chiapas. Il 3 dicembre del 2000, dopo che il neo presidente Vicente Fox nel momento della sua proclamazione disse che avrebbe risolto il conflitto armato in Chiapas in 15 minuti, lanciarono la Marcia del Colore della Terra per esigere la messa in pratica degli accordi di San Andres. Nel 2006 ci fu la Otra Campagna, mentre nel 2018 parteciparono al processo dal basso di tentativo di candidatura indipendente di una donna indigena, Marichuy. Solo nel 2012 e così in questo 2024 hanno deciso di guardare a distanza, e di concentrarsi sul loro processo interno. Un processo che oggi deve fare i conti con gli anni che passano, le nuove generazioni che non conoscono la vita fuori dall’ambito rivoluzionario, la crisi dei movimenti sociali in Messico, in Latino America (a parte quello femminista) e nel mondo, la minor attenzione solidaria che appoggia la lotta zapatista, la violenza di stato e dei gruppi criminali, gli scontri interni al capitalismo mondiale, la migrazione sia come processo continentale che proprio delle comunità indigene, la crescente necessità di campi e di innovazione che attraversano la vita della comunità. La rivolta zapatista ha migliorato la vita indigena, ha cambiato la vita di chi fa parte dell’organizzazione ma obbligando i governi a riconoscere l’esistenza dei popoli originari e fornire, per quanto in maniera insufficiente, forme di welfare che evitassero che l’esempio zapatista si replicasse altrove o allargasse in Chiapas ha fatto si che la vita indigena migliorasse in tutto il Messico. E non solo. L’EZLN sta però facendo, in maniera pubblica, i conti anche con i suoi errori. Nell’ultimo decennio, a partire dall’escuelita zapatista e dal racconto dei primi anni di autonomia, si è aperto un confronto interno su ciò che non ha funzionato nell’autogoverno. Il “regalo di compleanno dei primi 30 anni di rivoluzione” è stato quello di raccontare pubblicamente ciò che gli ha spinti a chiudere l’esperienza dei Municipi Autonomi Ribelli (fondati nel 1995) e delle Giunte di Buon Governo (2003) per dare spazio ad una nuova struttura che riconosce la puntiformità dell’adesione all’organizzazione e permettere un maggior dialogo tra le famiglie delle comunità. I GAL ovvero Governo Autonomo Locale sono la base della nuova forma organizzativa. Chi non è mai stato in terra zapatista deve pensare che il territorio organizzato e amministrato dall’EZLN non è mai stato omogeneo, le comunità che si proclamavano ribelli non sempre vedevano l’adesione alla rivoluzione di tutti e tutti i suoi abitanti, e soprattutto non tutte le comunità in terra Zapatista aderivano all’EZLN. Questa scelta libera e consapevole di aderire all’organizzazione in questi anni ha generato una nuova geografia e geometria relazionale con famiglie e comunità mai state zapatiste che lo sono diventate, così come famiglie e comunità storicamente zapatiste che hanno deciso di uscire dall’organizzazione. Chi non è più zapatista, o non è mai stato zapatista, non per forza è anti-zapatista. Situazione complessa che nasce da un territorio segnato storicamente dall’organizzazione indigena e campesina. Nei primi decenni di vita l’EZLN è riuscito a creare ponti e dialoghi con diversi soggetti nel nome di una rete di dignificazione dell’essere indigeni. Rete nata già prima dell’esplosione armata e che ha retto fino alla fine degli anni ’90 quando a partire dal massacro di Acteal e la cooptazione di gruppi paramilitari e stata poi sviluppata la “guerra di bassa intensità”. Oggi il conflitto generato dalle politiche pubbliche viene declassato a scontro inter-comunitario ma è figlio di un processo di contrasto alla rivoluzione zapatista che ha soffiato sul vento della differenza e spinto alla divisione tra gruppi organizzati prima e quindi alla divisione interna alle singole comunità. L’Orcao è l’organizzazione campesina, che assieme alla CIOAC, più agisce violenza contro l’esperienza zapatista. Come ci ricorda Desinformemonos “ORCAO è stata fondata nel 1988 da 12 comunità del comune di Ocosingo, in Chiapas, come organizzazione legittima che chiedeva prezzi migliori per il caffè e una soluzione all’arretratezza agraria. In breve tempo si sono aggiunte molte altre comunità. Per anni, ORCAO ha mantenuto legami con lo zapatismo. Tuttavia, questi furono interrotti alla fine degli anni ’90, quando l’organizzazione, come molte altre, cedette alla tentazione per ottenere il sostegno del governo e le cariche pubbliche in cambio di favori. La rottura si aggravò con l’arrivo di Pablo Salazar come governatore del Chiapas nel 2000. L’ORCAO abbandonò allora la lotta e si alleò con il governo, rompendo con l’EZLN per avere accesso al denaro pubblico. Da quel momento in poi, le aggressioni sono diventate sempre più frequenti e violente”. Ed è nello scenario puntiforme del mondo indigeno chiapaneco che l’EZLN oggi si colloca. Sa di essere uno dei soggetti organizzati dello stato e cercando di rompere le logiche conflittuali agite da altri gruppi e sostenute dalle politiche pubbliche statali e federali fa un passo indietro, non mette più il cappello “territoriale” e facendo si che l’adesione allo zapatismo sia soggettiva ed individuale cerca di rendere vane le pressioni che famiglie non zapatiste in comunità autonome subivano. Non solo, la proposta riorganizzativa della struttura civile zapatista si accompagna, per me, all’idea di gestione comune e non proprietaria dei campi. L’idea del comune e della non proprietà è la grande proposta zapatista per il futuro. Gran parte delle politiche pubbliche di “welfare” indigeno si basano sulla presentazione di attestati di proprietà di campi, una misura sporca e violenta che ha alimentato tensioni per due motivi: la prima è che il 1 gennaio del 1994 l’EZLN ha occupato 700mila ettari di campi che i latifondisti avevano sottratto alle comunità, campi oggi che vedono sorgere per esempio i Caracoles o le cliniche autonome. La seconda è che uno dei grandi lasciti dell’asse rivoluzionario di Zapata e Villa del secolo scorso è la creazione per costituzione dei campo ejidali, ovvero comunitari e collettivi. La pretesa di attestati di proprietà per poter accedere ai programmi governativi ha quindi scatenato la ricerca di pezzi di carta e scontro per l’utilizzo dei campi alimentando logiche individualistiche e aliene al diritto comunitario.E così è stato creato a tavolino un sentimento di rifiuto della pratica d’occupazione dei campi operato nel 1994 dall’EZLN. Zapatiste e zapatisti rompono la logica della proprietà e la proposta di utilizzare i campi occupati come campi comuni prova a ribaltare lo scontro voluto dal governo e offre un processo di pace nel nome della pratica dello sviluppo ancestrale delle comunità: il lavoro di campo. Un tempo a questa magnifica proposta di declinare l’idea “del comune” in senso indigenista si sarebbe affiancato un momento di incontro tra intellettuali e movimenti autonomi indigeni di tutto il mondo, così da creare un nuovo significato al concetto di “comune”. L’EZLN ha sempre ricordato l’urgenza di tenere assieme teoria e pratica. Il nuovo corso dello zapatismo invece ci suggerisce, assieme al silenzio in cui l’EZLN è tornato dopo il 1 gennaio di quest’anno, una pratica diretta senza bisogno di spettacolari convocazioni, di seminari internazionali, di congressi intergalattici e di momenti pubblici di creazione di significato altro a quello che hanno determinato come necessario per il loro sviluppo. Forse anche per questo nell’ultimo decennio l’attenzione internazionale alla lotta zapatista è calata. Forse è proprio una scelta interna che si è materializzata anche con la Gira Zapatista per l’Europa dove, nonostante la presenza del portavoce Moises, hanno deciso di non avere momenti pubblici ed incontri con la stampa…..nemmeno quella di movimento. Una scelta che io ancora non capisco fino in fondo ma che allo stesso tempo, non solo, rispetto come si deve rispettare ogni scelta di chi ha fatto dell’autonomia il centro della pratica politica rivoluzionaria ma soprattutto rispetto perchè fatta da chi da 40 anni sta organizzando, costruendo e vivendo uno dei pochi esperimenti di altro mondo possibile. A volte penso che ciò che penso io e avrei fatto io vale giusto per me e non può essere elemento reale di valutazione di un percorso che ha dimostrato negli anni, tra vittorie, errori, momenti moltitudinari, fallimenti, creazione d’immaginario, e capacità di mettersi in discussione di saper rispondere e resistere ad ogni attacco e cambiamento. E forse è bene ricordare che la mia osservazione è intrisa, anche se non vorrei, di un retaggio coloniale e patriarcale da cui certamente non mi sono liberato. E così a 30 anni dal 1 gennaio del 1994 poco importanta quel che avrei fatto io, poco importa se questo 1 gennaio mi aspettavo un discorso più ampio e di fase, poco importa se la Gira Zapatista per l’Europa per me doveva essere anche un momento di rilancio della loro situazione e capace di creare nuova attenzione, quel che è importante è che il laboratorio zapatista è nuovamente cambiato generando idea e nuova attenzione. Senza snaturarsi, continuando nella meravigliosa e coraggiosa pratica di messa in discussione del ruolo pubblico di uno dei pensatori critici più influenti degli ultimi 30 anni, ovvero chi si nasconde dietro al passamontagna e al nome di Marcos, Così come nella capacità sconvolgente, almeno per me, di prendere in mano idee e suggestioni di altri mondi e farle proprie, resistendo ad una guerra crudele e letale senza accettare la logica della violenza. Guardare ai cambi dell’EZLN è necessario ed è un qualcosa da fare con attenzione, con il rispetto dovuto a compagne e compagni in lotta, senza porsi in una posizione di vantaggio o di giudizio ma con la logica del pensiero critico. Supportare oggi il processo di resistenza è importante come lo era ieri. Trovare nuove forme di dialogo è necessario per uscire dalla pratica occindentalecentrica della solidarietà ed entrare in quella della complicità perchè come i Clash dicevano “il futuro non è scritto”. E Allende resistendo nel palazzo della Moneda disse “la storia è nostra, e la fanno i popoli”
Andrea Cegna